megaliti nardodipace civiltà perdute

In Calabria esisteva una civiltà capace di erigere complessi siti megalitici già 5000 anni prima di Cristo. Forse a Nardodipace anche una grande piramide.

Un mistero non ancora esplorato dall’archeologia quello dei megaliti di Nardodipace (Vibo Valentia), strutture ciclopiche che non possono essere altro che l’opera di un popolo antico che fece grande il destino della Calabria in un epoca lontanissima, circa 5000 anni prima di Cristo, oltre 7.000 anni fa.

La realtà della Calabria preistorica potrebbe essere molto più di quella raccontata e scoprire cosa giace sotto le colline vibonesi potrebbe obbligarci a riscriverne la storia.

Tra i reperti sono stati rinvenute le famose tavolette con su incisi “petroglifi”, scritte in una lingua sconosciuta, che è stata decodificata dal prof. Domenico Raso, che spese tutta la sua vita per far luce sulla civiltà dei Pelasgi o “popoli del mare”. Si tratta di antichissime civiltà del Neolitico, di cui parla anche Omero nell’Odissea, indicandoli con il nome di Feaci. Questi intorno al 7000 a. C. avrebbero lasciato L’Egitto e la Siria per scampare alla devastazione di un potente tsunami.

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Secondo le traduzione di Domenico Raso, sulle tavolette viene raccontato il processo di insediamento di questi popoli in Calabria, indicando l’erezione di almeno quattro siti pelasgici. Due di questi sarebbero già stati individuati. Si tratta di Placanica, in provincia di Reggio Calabria, in particolare nelle grotte delle fate e dei Re, nelle quali questi popoli avrebbero deposto almeno 110 feretri reali , nell’attesa di costruire nella nuova patria, dei siti funerari adeguati che sarebbero poi stati realizzati nel secondo sito, ovvero nella vicina Nardodipace, denominata nelle tavolette di Tolone Azzariti come “città della porta”.

Il professore Alessandro Guerricchio, geologo di chiara fama, già ordinario all’Università della Calabria, da anni grida a gran voce l’impossibilità di riconoscere le strutture magalitiche come opera della natura. Da geologo sa bene che i possenti blocchi di granito (peso stimato circe nelle 200 tonnellate), non possono essere frutto dell’erosione naturale, ma veri e propri dolmen e triliti preistorici, appositamente creati dall’uomo. In essi vediamo:

• la cura nell’assemblaggio dei blocchi;

• la grande attenzione agli incastri fra gli elementi contigui, che, nel caso degli ‘architravi’ era agevolata da geometrie ‘a conca’ prodotte da lavorazioni con lo scalpello;

• la loro disposizione geometrica a rappresentare una vera e propria ‘architettura’, con piani o basi di appoggio squadrate su cui gravano i ‘pilastri’ costituiti a loro volta da blocchi di aspetto più o meno geometrico (cubico o parallelepipedo). Questi ultimi recano, talora, incisi ‘pittogrammi”.

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Una scoperta archeologica che assume un’importanza fondamentale nel panorama della preistoria italiana. Sono stati fotografati blocchi di granito del peso stimato di oltre 200 tonnellate, grandi mura, probabilmente di fortificazione, pilastri sormontati da un “architrave”. Il tutto è parte di un vasto progetto che impegnò per la sua erezione notevoli forze umane. Un popolo che senza dubbio aveva un’organizzazione militare o sacerdotale che gli permetteva di coordinare gli enormi sforzi necessari all’estrazione e al trasporto degli enormi blocchi di granito (uno in particolare misura 10 metri di altezza ed à largo 20).

Non si può continuare a negare l’evidenza, le strutture sono la testimonianza del passaggio di una antica ed evoluta civiltà che non aspetta altro che essere studiata e riportata alla luce.