A parte il professor Charles Hapgood, autore di "Ancient Sea Kings", e i suoi sparuti seguaci, sostenitori dell'esistenza di un'antica civiltà pre-diluviana che avrebbe raggiunto un alto livello di sviluppo nell'arte della navigazione e della cartografia, prima di venire spazzata via da un cataclisma circa 10.000 anni or sono (un po' come narra Platone, nel "Timeo" e nel "Crizia", la fine di Atlantide), per gli storici e gli archeologi "ortodossi" non v'è dubbio che i manufatti reperibili più a sud dell'intero pianeta sono quelli degli antichi abitatori della Terra del Fuoco, all'estremità meridionale del continente americano: fino a 55° gradi di latitudine Sud, sul parallelo del Capo Horn.

 

E quel che dicono gli scienziati ortodossi è legge nel mondo, apparentemente così pluralista, della cultura contemporanea dominato, in realtà, da un paradigma tecno-scientifico che ha relegato nell'area grigia delle culture marginali tutti quei saperi, quelle teorie e persino quei fatti che hanno l'antipatica abitudine di non lasciarsi collocare docilmente nel quadro rassicurante ove tutto ha una spiegazione logica e funzionale al sistema stesso.

Ma che cosa accadrebbe se si venisse a scoprire che l'uomo, l'uomo civilizzato capace di costruire manufatti, insomma l'"homo abilis" era presente molte centinaia di chilometri più a sud della Terra del Fuoco (o della Tasmania, o delle Isole Auckland a mezzodì della Nuova Zelanda) e che ha lasciato tracce tangibili della sua esistenza e della sua inventiva oltre il Circolo Polare Antartico, nel Continente Bianco che giace all'estremità meridionale della Terra?
Bisognerebbe rivedere molte nostre certezze e optare per una delle due possibilità, entrambe gravemente "eretiche" nei confronti del paradigma storico-archeologico oggi imperante: o i Poli geografici (e quelli magnetici) si sono spostati con moto improvviso in epoca storica; come sostengono quei paleontologi che non sanno darsi pace per la presenza di erbe proprie di un clima temperato nello stomaco dei mammuth trovati congelati nel ghiaccio siberiano (3), oppure l'ultima glaciazione nell'estremità dell'emisfero sud si è conclusa molto più tardi di quel che finora si sia creduto; e ciò spiegherebbe i resti semifossilizzati di un bosco dell'isola King George, i cui alberi risalirebbero, secondo la valutazione di Renato Cepparo del 1976, a non più di 12.000 anni or sono. (4)
Bisogna pur dire che altri studiosi non concordano affatto con una simile datazione e ribadiscono l'impossibilità che l'Antartide abbia avuto, "in epoca storica", un clima di tipo temperato; né sono disposti a credere al ritrovamento delle misteriose "colonnine" d'argilla sull'Isola Seymour, di cui ci occuperemo in questa sede. E poiché non intendiamo fare una ricerca a tesi ma semplicemente porre degli interrogativi che esigono comunque delle risposte, riporteremo subito l'opinione di uno degli "scettici", scelta fra le più significative per la radicalità della negazione, pur se addolcita da un atteggiamento teoricamente possibilista rispetto a eventuali revisioni parziali del paradigma scientifico oggi dominante, che devono comunque essere valutate con estrema cautela. È quella di Marco Taviani, geologo marino e membro del Centro Nazionale delle Ricerche, che nel gennaio-febbraio del 2002 (la stagione migliore, a quelle latitudini) ha visitato partecipato a una missione in Antartide, senza però sbarcare – come dice lui stesso – sull'isola Seymour.
Ne riportiamo qui un passaggio significativo, tatto dal suo diario di bordo, scritto sul rompighiaccio scientifico "Natahaniel B. Palmer" e recante la data del 31 gennaio 2002.

«Ci siamo lasciati alle spalle il Mare di Weddell, navigando in mezzo a isole vulcaniche di una cupa bellezza, fra le quali l'impressionante Rosabel, che fu un vulcano sottoghiaccio e la nera Andersson, una falesia a picco sul mare. Scilla e Cariddi dell'Antartide. Siamo arrivati anche a poche decine di miglia dalle isole James Ross e Seymour. Avvolta nella foschia, quest'ultima si è sottratta alla vista.
Che peccato. A causa della sua straordinaria ricchezza in fossili, Seymour è infatti considerata la "stele di Rosetta antartica" per decifrare la storia di questo continente. Oltre a centinaia di specie diverse di conchiglie marine di tutti i tipi, coralli, granchi, vermi, pinguini giganti, uccelli, rettili acquatici databili alla fine del Cretaceo e al paleocene, circa 60-40 milioni di anni fa, queste isole hanno anche fornito numerose impronte di piante fossili. Purtroppo, questa evidenza paleontologica di antiche foreste antartiche è stata abusata da ha pochissima dimestichezza con la Scienza ed il suo rigoroso modo di operare, preferendo invece il mito e la pseudoscienza.
A questo proposito, mi è capitato tra le mani una copia dell'"Antarctic Sun", un giornaletto stampato in Antartide a McMurdo, dove un certo T. Lloyd, informa il mondo dell'esistenza in Antartide di creature evolute da antichi rettili mesozoici, i Lystrosaurus (effettivamente esistiti),in una razza quasi superiore, i Rettiloidi; questi ultimi si sarebbero poi accordati negli anni 30 con i nazisti che avevano una base segreta, nota come 211, nel pieno della terra di Maud. Fin qui, niente da ridire, la Terra è piena di visionari e queste "rivelazioni" suscitano al più un sorriso. Più subdole risultano però altre informazioni, supplite dal nostro Lloyd, e che si allineano a teorie assai in voga alle nostre latitudini. E cioè relative ad un Antartide temperato, vivibile, anzi vissuto da civiltà umane così avanzate da aver prodotto le famose carte geografiche di età rinascimentale, copie però di documenti assai più antichi, nelle quali si vedrebbe un Antartide privo di ghiacci. Dato che risulta fuori questione che l'Antartide sia attualmente sepolto da vari chilometri di ghiaccio, rimane l'interrogativo del "quando" questo continente sarebbe stato privo della sua calotta glaciale, dunque temperato e, perché no, abitabile. La risposta dei nostri romantici appassionati di miti, è chiara: circa diecimila anni fa il ghiaccio non c'era. Le prove? Qualcuno chiederà, non pago di semplici chiacchiere. E qui il problema si fa doloroso. Per quanto si possa essere indulgenti con mitomani, creduloni e visionari, questa indulgenza cessa quando questi oppositori dell'arida scienza, pretendono di utilizzarla però per dare fondamento alle loro teorie. Dunque, l'Antartide era caldo e ospitale: lo provano le foreste di Seymour, dicono i creduloni! Già, ma queste foreste sono molto, ma molto più antiche: hanno 40 milioni non 10 mila anni. I creduloni ci chiamano in ballo asserendo che i geologi e glaciologi hanno stabilito che il ghiaccio dell'Antartide non è più vecchio di 10 mila anni: nossignori, parliamo ancora di milioni ed è provato da perforazioni nella calotta e da tutte le possibili evidenze geologiche a mare e a terra.
Vengono prodotti dati, non confermati, di utensili di indiani a pesca nelle acque antartiche. Oppure di supposti manufatti, o almeno come tali interpretati dal capitano di una baleniera. E per tutto ciò c'è sempre almeno una spiegazione scientifica alternativa. E allora le carte geografiche? Non lo so, non so se siano autentiche, non sono nemmeno ben sicuro che raffigurino l'Antartide. E comunque l'evidenza accumulata da decenni di studi scientifici indipendenti porta sempre alla medesima ricostruzione di un Antartide ghiacciato da milioni di anni. E così, la scienza non concede spazio per Atlantide al Polo Sud. Cambierebbe opinione solo di fronte a prove vere, perché questa è la sua natura. Ci sono ancora interrogativi ai quali la Scienza non dà risposta? È vero. Questo Pianeta e questa nostra vita sono costellati di eventi misteriosi e inspiegabili? Pure questo è vero. La Scienza prova e riesce a dare risposte. Con tempo e metodo. Non erano considerati soprannaturali ed inspiegabili anche i fulmini?» (5)

Questo brano è un buon esempio di quell'atteggiamento di malcelata supponenza che alcuni scienziati di professione ostentano verso quanti nutrono il sia pur minimo atteggiamento "eretico" nei confronti della Scienza con la "S" maiuscola (come essi scrivono). A parte la forma, diciamo così, piuttosto disinvolta, non si può fare a meno di notare la sprezzante genericità dei riferimenti alle tesi di quanti si vedono affibbiare dall'Autore la qualifica di "mitomani, creduloni e visionari". Larsen, un valoroso esploratore antartico, è "il capitano di una baleniera"; Cepparo e Barbiero, che hanno valutato come relativamente recente l'età delle foreste della non lontana isola King George (Barbiero riferisce che i tronchi contenevano ancora delle parti lignee non del tutto fossilizzate), non sono neanche menzionati, sebbene a loro si riferisca, evidentemente, l'appellativo di creduloni. Quanto agli Indiani "a pesca nelle acque antartiche" ed ai loro utensili (non si specifica quali, come se non valesse la pena neppure di confutarne la presenza).
Taviani sarebbe forse sorpreso di sapere che ancora nel XIX secolo i Maori si spingevano con le loro piroghe, nelle battute di pesca, fino alle isole sub-antartiche di Auckland, 500 chilometri a Sud-Ovest della Nuova Zelanda; isole che, pur non trovandosi a una latitudine molto elevata (50° e 32' Sud), sono però molto isolate all'estremità del Pacifico e hanno un clima assai rigido, tanto che vi crescono solo alberi nani. (6)
L'importate, secondo il suo modo di vedere, non è prendere in seria considerazione i "fatti", e sia pure per confutarli; l'importate è che vi sia a portata di mano, per ogni fatto "scomodo" (utensili degli Indiani; manufatti trovati da Larsen; carte geografiche "anomale", come quella di Piri Reis), almeno una spiegazione scientifica alternativa. Il che significa che deve considerarsi "scientifico" solo quello che dice, presentemente, la Vulgata dei divulgatori scientifici (di solito gli scienziati sono più attenti alle opportune sfumature), mentre ciò che contrasta con essa deve essere scartato pregiudizialmente.
Se gli scienziati si fossero sempre comportati così, la scienza non avrebbe mai realizzato il minimo progresso, bloccata alle legnose certezze del principio di autorità (ipse dixit!). Per non soffermarci sulla sgradevolezza di quella velata minaccia che subentra bruscamente alla tolleranza ostentata da principio ("finché si limitano a delirare, lasciamoli perdere"), perché poi, quando i "mitomani" tirano in ballo gli scienziati "seri", allora cessa ogni "indulgenza" (dice proprio così: "indulgenza", non tolleranza, dall'alto della sua Scienza). Caratteristico è il ragionamento ellittico che "chiude" la questione delle carte geografiche anomale; e non si tratta solo di quella di Piri Reis, ma nella faccenda sono coinvolti anche cartografi europei universalmente famosi ed apprezzati, quali Oronzio Fineo, Abramo Ortelio, Philippe Buache ed altri ancora (7). Il Nostro dice testualmente: "Non lo so; forse non sono autentiche; e comunque l'evidenza degli studi scientifici, ecc."; e sposta la confutazione dal terreno della cartografia (forse un po' troppo spinoso) a quello, genericissimo, di una complessiva – ma non meglio specificata – evidenza scientifica. Andando avanti con una tale "forma mentis", è piuttosto improbabile che possano sorgere e affermarsi nuove teorie scientifiche nel prossimo futuro: la cosiddetta "evidenza scientifica", avendo pronunciato la parola definitiva, non concederebbe loro alcuno spazio né credito. Dunque, non c'è nient'altro da aggiungere.
Oppure no?
Se nuovi fatti dovessero contrastare con le idee oggi consolidate, forse dovremmo cambiare strada. Metodi di lavoro, mentalità. Forse, finalmente, saremmo costretti a rivedere le nostre teorie per non dar torto ai fatti, il che – dopotutto – sembrerebbe un ragionevole approccio scientifico al mondo della natura e a quello della storia; invece di continuare con la cattiva abitudine di dare torto ai fatti per non scomodare le nostre teorie apparentemente consolidate.
In effetti, secondo Karl Popper una teoria scientifica non viene automaticamente smantellata dalla scoperta di alcuni fatti che la contraddicono, almeno fino a un certo punto. Essa può ancora restare al suo posto, beninteso con le opportune correzioni e modifiche, fino a quando non può essere sostituita da una nuova teoria, più semplice e per così dire più economica, che consenta di spiegare un maggior numero di fatti con un minor numero di contraddizioni e inconvenienti. Né si dimentichi quel diceva Thomas Khun, il grande epistemologo, secondo il quale il caratteristico andamento "a sbalzi" del progresso delle conoscenze scientifiche è dovuto appunto al fatto che, di tanto in tanto, alcuni scienziati "irregolari" – esclusi o autoesclusi dal paradigma dominante – ritengono che quest'ultimo abbia fatto definitivamente il suo tempo, e lo prendono frontalmente d'assalto per spalancare la strada ad una concezione totalmente nuova della realtà.

Ma adesso torniamo al nostro tema iniziale.
Dopo essersi diffuso sulle sconvolgenti implicazioni che scaturirebbero dalla conferma della autenticità della carta dell'ammiraglio turco Piri Reis (che sembra mostrare le coste dell'Antartide così come dovevano presentarsi almeno 5.000 anni fa, libere dai ghiacci e solcate da grandi fiumi che sfociavano in mare), lo scrittore americano Roger A. Caras così scriveva nel suo libro "Antarctica, land of frozen time" del 1962:

«Ma c'è un altro strano fatto che forse un giorno avrà il suo peso sull'esame di questo problema. Nel 1893 un cacciatore di foche norvegese, il capitano C.A. Larsen, trovò 50 palle di argilla posate su colonnine della stessa materia. La scoperta ebbe luogo nell'isola di Seymour, al largo della costa orientale della Penisola di Palmer, assai più a sud di qualsiasi altra località a noi nota in cui siano stati rinvenuti oggetti primitivi lavorati. Egli riferì che "esse avevano tutta l'apparenza di essere state fatte da mani umane". Nessuno ha trovato finora argomenti per mettere in dubbio le parole di Larsen, come pure nessuno è riuscito a escogitare una spiegazione soddisfacente. (Non tutte le risposte sono state trovate nella storia dell'Antartide: tutt'altro!). Comunque i resti di argilla di Larsen e la carta di Piri Reis rimangono ancora avvolti nel mistero. Ma torniamo ai fatti che possiamo spiegare e alla storia che ci è consentito di interpretare, senza dimenticare che così facendo ci lasciamo alle spalle quella zona nebulosa dell'umana conoscenza al limite fra la realtà e la fantasia, fra la storia vera e propria e l'istrionismo intellettuale. E quali meraviglie potremmo scoprire in questa zona il giorno in cui i nostri occhi riusciranno a penetrarne le nebbie! (…)
Perché le foche si spingono nell'interno dove inevitabilmente muoiono di fame? Perché arrancano penosamente su un terreno scabroso quando ogni miglio le avvicina al loro fatale destino? Perché si trovano stercorari a trenta chilometri dal Polo Sud quando le località più vicine dove possono trovare cibo, compagni e possibilità di fare il nido si trovano a circa 1.200 chilometri di distanza? Perché e come i pinguini fanno il giro del continente per ritornare alle loro colonie natali? Perché passano migliaia e decine di migliaia di loro simili raccolti in decine di colonie, apparentemente uguali alla loro, per ritornare al luogo dove sono nati? Com'è che una fragile zanzara può sopravvivere fra i rigori estremi dell'Antartide, dove animali più versatili e più resistenti non hanno potuto resistere?
Quali ricchezze minerarie possiede l'Antartide? Qual è realmente il freddo massimo che può segnare il termometro? Cos'erano quei piccoli manufatti di argilla trovati dal comandante Larsen nella Penisola di Palmer? Com'è che le prime carte, carte compilate molto prima delle prime spedizioni conosciute, mostrano l'Antartide seppellita sotto la neve ma libera dai ghiacci? Questo continente ha forse una storia a noi completamente sconosciuta? Come mai, assai prima che ne venisse riconosciuta l'effettiva importanza, l'Antartide attirava esploratori e naviganti che nemmeno il pericolo di morte riusciva a scoraggiare? Ecco alcuni degli interrogativi che abbiamo lasciato in sospeso…» (8)

Il capitano Larsen, purtroppo, non ha pubblicato un libro né una relazione su questo suo primo viaggio antartico e nemmeno sui successivi: alla sua personalità dinamica e fantasiosa mancava, evidentemente, la componente della vanità personale. Tuttavia siamo riusciti a trovare una pagina del suo diario di bordo della baleniera Jason, che riporta in poche parole – con lo stile secco e sbrigativo dell'uomo pratico, che si sente più a suo agio sul ponte di comando di una nave in mezzo agli iceberg, e che poco o punto si cura di quei dettagli che tanto interesserebbero, invece, lo studioso puro per la sua scoperta eccezionale.

«Dal diario di Carl Anton Larsen.
Isola di Seymour, 1893.

Dopo aver percorso un quarto di miglio norvegese (1 miglio = 10 km.) verso l'entroterra a circa 300 piedi (1 piede = 30,48 cm.) sopra il livello del mare, s'osserva un numero maggiore di alberi pietrificati, che appartenevano ad una specie di latifoglie. Era visibile la corteccia con tanto di rami e strati legnosi annuali del tronco. (…)
In diversi luoghi intorno all'isola si scorgevano palline (grumi) di sabbia e "cemento", posti su pilastri dello stesso materiale. Talvolta ce n'erano fino a 50 pezzi, e pareva fossero stati formati da mani umane.» (9)

Da questo brano si ricavano alcune significative circostanze, che il pur scrupoloso racconto di Roger A. Caras non aveva permesso di mettere bene a fuoco.

Non pare che Larsen sia rimasto particolarmente colpito dalla scoperta di quei manufatti, anche se li fece asportare e, in seguito, collocare nella sua abitazione privata di Grytviken, nella Georgia Australe.
Non si tratta semplicemente di palline o grumi di materiale conglomerato, che potevano anche essere uno "scherzo" della natura (un po' come le "pietre rotonde" del Costarica o di altre parti del mondo, Nuova Zelanda compresa). Infatti erano collocate su pilastri dello stesso materiale: ogni pallina su un pilastro, come in base a una precisa scelta, diciamo così, architettonica.
Non erano cinquanta in tutto, come ha scritto Caras, ma molte di più: erano sparse per tutta l'isola e raggruppate in modo da formare degli insiemi. In un unico luogo ve n'erano non meno di 50 (di qui, probabilmente, l'equivoco), perciò in totale dovevano assommare, forse, a qualche centinaio. Troppe e troppo numerose, dunque, per essere una sorta di capriccio geologico; senza contare che non si è mai sentito parlare di oggetti del genere, in natura. (10)
Ma chi era questo capitano Larsen, che generalmente non viene ricordato nei libri di storia delle esplorazioni polari, anche se è stato testimone – ahimé, negligente e poco "scientifico" – di un ritrovamento così eccezionale, quale quello delle colonnine d'argilla dell'Isola Seymour in Antartide? E dove si trova, esattamente, l'isola Seymour, e a quale distanza dalla terraferma più vicina che fu sicuramente sede di stanziamenti dell'uomo paleolitico?

Partiamo dalla seconda domanda.
L'Isola Seymour, generalmente, non è nemmeno segnata sui normali atlanti geografici, a motivo della sua insignificanza, smarrita com'è di fronte alla costa orientale della Penisola Antartica, là dove la barriera di ghiaccio che scende dalle montagne dell'interno (che sono, strutturalmente e geologicamente, la continuazione pura e semplice della Cordigliera delle Ande, dopo che questa si è abbassata all'altezza dello Stretto di Drake) si salda ad alcune piccole isole, per lo più di origine vulcanica. Le maggiori portano i nomi, da Nord a Sud, di Joinville, James Ross, Robinson ed Hearst. L'Isola Seymour si trova non lungi dall'Isola James Ross, dunque nella sezione settentrionale di quel cordone di isole cui non è stato dato nemmeno il nome di arcipelago, e riveste una particolare importanza per i naturalisti a motivo della sua grande ricchezza di testimonianze fossili del passato geologico dell'Antartide. Si tratta di piante (11) e intere foreste, come testimoniano i tronchi trovati già verso la fine dell'Ottocento dal capitano Larsen, e una gran varietà di animali marini dalle conchiglie, ai coralli, ai crostacei, ai rettili acquatici e perfino ai pinguini giganti, di cui si continuano a trovare le ossa.
Abbiamo già visto che Marco Taviani l'ha paragonata a una sporta di "stele di Rosetta" per la storia botanica e zoologica del continente antartico, proprio a motivo della ricchezza dei suoi depositi fossiliferi.

Ma chi è questo misterioso capitano Larsen, che avrebbe fatto una scoperta tanto sensazionale sull'Isola Seymour e che non si sarebbe poi curato di sottoporre all'esame degli scienziati i presunti manufatti da lui ritrovati in quella circostanza?
Non era, appunto, uno scienziato, o uno studioso, né un esploratore di professione, ma semplicemente un capitano di baleniere e un abile e intelligente imprenditore nel ramo della pesca oceanica.
Negli ultimi dieci ani del XIX secolo vi fu una rapida comparsa di balenieri che, dopo aver quasi esaurito le possibilità di caccia nei mari artici, si spostarono nel più freddo emisfero meridionale e, appoggiandosi ai porti del Cile, dell'Argentina, del Sud Africa, dell'Australia e della Nuova Zelanda diedero l'avvio a una straordinaria epoca della caccia alle balene lungo le coste dell'Antartide. Se essa ebbe conseguenze disastrose sugli equilibri ecologici dei mari antartici, causando danni immensi alla fauna marina, sul momento l'industria della carne e dell'olio che venivano estratti da questi grandi cetacei conobbe un impulso prodigioso, tanto da far sorgere quasi dal nulla cittadine sub-antartiche intorno agli stabilimenti di lavorazione, come Grytviken, nella Georgia Australe; e da consentire rapidissimi guadagni a quei commercianti, soprattutto scandinavi, che ebbero abbastanza coraggio e abbastanza fiuto negli affari da investire i loro capitali in questo settore dallo sviluppo travolgente.
Il capitano Carl Anton Larsen, di nazionalità norvegese ma al servizio di una società armatrice germanica, fu uno di questi fortunati pionieri, mezzi imprenditori d'assalto e mezzi pescatori per antichissima tradizione. Del resto, non era stato un geografo né un naturalista, ma un cacciatore di balene inglese a nome William Smith ad avvistare, nel 1819, le isole Shetland Australi; mentre un cacciatore di foche statunitense, Nathaniel Brown Palmer, pare essere stato il primo uomo a scorgere la Terra di Graham (oggi Penisola Antartica), ossia la terraferma del misterioso continente australe. (12)
Dopo che i viaggi di James Cook avevano sfatato il mito plurisecolare della Terra Australe, che aveva animato innumerevoli viaggi di navigatori ardimentosi in cerca di ricchezze da prelevare e popolazioni da convertire al cristianesimo, erano stati i cacciatori di foche e di balene a mostrare una ripresa di interesse per i mari e le terre desolate dell'estremo Sud, fin dai primi anni dell'Ottocento, tanto da dare un contributo non indifferente al progresso delle conoscenze geografiche in quella parte del globo. (13)

Scrive lo studioso italiano di cose polari Silvio Zavatti, nel suo bel libro "L'esplorazione dell'Antartide":

«L'ultimo decennio del secolo passato [il XIX, nota nostra] segnò una ripresa nelle iniziative e nelle imprese che avevano l'Antartide per meta. Le navi baleniere che incrociarono in quei mari sembrano essersi moltiplicate, o per lo meno se ne hanno più numerose notizie. Questa maggior frequenza di baleniere nei mari meridionali fu in diretto rapporto con la rarefazione della grossa cacciagione marina nei più limitati e da più lungo tempo frequentati mari artici; ma è anche da osservarsi che abbastanza spesso queste navi attrezzate per la caccia marina ospitavano qualche studioso, evidentemente per il vantaggio che gli armatori avrebbero tratto da una maggiore conoscenza di quei mari e di quelle terre meridionali, ma senza dubbio anche con vantaggio del progresso del sapere umano. Così, nel 1892 partì dalla Scozia una flottiglia di quattro baleniere, dirette al Mare di Weddell, e su di esse vi erano alcuni passeggeri speciali, come ad esempio il naturalista W. S. Bruce, che pochi anni dopo doveva seguire Conway nella esplorazione delle Svalbard, ma più tardi ancora tornare in Antartide al comando di una nave. Però quella flottiglia non portò grandi progressi alla conoscenza dell'Antartide: fecero una ricca caccia di foche, ma non oltrepassarono il 65° di latitudine meridionale.
Ben altro risultato ebbe una baleniera, inviata nello stesso ano 1892, da una ditta armatrice di Amburgo, sotto il comando di Carlo Anton Larsen; la nave era la "Jason", quella stessa che aveva portato Nansen e i suoi compagni fino alla Groenlandia per compierne la traversata, e quella stessa che, più tardi, fu acquistata dal Duca degli Abruzzi, ribattezzata "Stella Polare", e portata gloriosamente nella grande gara internazionale verso il Polo Nord. Larsen non si spinse molto lontano dentro il mare di Weddell; non sorpassò neppure il limite raggiunto dalla flottiglia scozzese, con la quale s'incontrò. Ebbe, però, una fortuna straordinaria: giacché nella piccola isola Seymour, che è presso la costa nord-orientale della Terra di Graham, trovò e raccolse piante fossili, che costituirono la prima testimonianza della passata vita geologica del continente antartico. Forse questa buona fortuna di carattere scientifico, oltre la buona caccia fatta, indusse la stessa ditta armatrice ad affidare, anche nell'anno successivo 1893, al capitano Larsen il comando dello stesso Jason – che fu la seconda nave a vapore a penetrare, secondo il programma prestabilito, nei mari meridionali – accompagnato da due altre baleniere, cioè la "Hertha" comandata dal capitano Evensen, e la "Castor", comandata dal capitano Pedersen. Larsen ebbe la fortuna di trovare la parte nord-occidentale del Mare di Weddell, abbastanza libera dai ghiacci, tanto che poté penetrare, costeggiando la Terra di Graham, fino alla latitudine di 68°; e scoperse, così, varie isole emergenti in lunga serie di fronte alla costa ritenuta continentale: fra le altre, quelle che chiamò di Re Oscar II e di Sven Foyn; e su alcune di queste numerose isole e isolette avrebbe constatato la presenza di coni vulcanici attivi, pur rimanendo in dubbio che invece che da un pennacchio di fumo fossero culminati da un soffio turbinoso di tormenta di neve. D'altronde le altre due baleniere della sua flottiglia navigarono a occidente della Terra di Graham: fu avvistata l'isola Biscoe, e rivista, per la prima volta dopo la sua scoperta nel 1821, la Terra di Alessandro I. Non vi è dubbio che Larsen – con l'aiuto dei suoi compagni di flottiglia nel secondo viaggio, ma sopra tutto con la propria opera personale – abbia portato notevoli contributi al progresso delle conoscenze dell'Antartide, anche se limitati a quel suo lembo lanciato nell'oceano verso l'America e compreso tra il Mare di Weddell a oriente, e il mare di Bellinghshausen a occidente.» (14)

L'inventiva e l'intraprendenza del capitano Larsen, peraltro, non dovevano fermarsi qui. Lo ritroviamo, esattamente trent'anni dopo, all'altro capo dell'Antartide, nel Mare di Ross: sempre capace di unire straordinarie intuizioni commerciali con una capacità di apprezzare l'importanza degli studi scientifici. Anche questa volta, pertanto, lo vediamo a capo di una spedizione di caccia (le balene si erano frattanto assai diradate nel Mare di Weddell, a causa dell'intensa caccia cui erano state sottoposte) che è, al tempo sesso, una spedizione di studio: una maniera notevole – e non molto frequente – di unire il senso per gli affari con l'ammirazione per una forma di sapere naturalistico e disinteressato. Nel suo caso, è difficile dire quale delle due componenti prevalesse: vi è qualche cosa dello spirito pratico dell'imprenditore nelle sue imprese scientifiche, e – per converso – qualche cosa di fortemente idealistico nelle sue battute di pesca. Alla bella età di sessantaquattro anni non ebbe timore di affrontare i tempestosi mari antartici e fece la morte più bella che un capitano di nave possa fare: morì nel pieno dell'avventura, stroncato dalle fatiche, a bordo della nave che danzava sui giganteschi cavalloni delle alte latitudini australi.

Sempre dal libro "L'esplorazione dell'Antartide":

«Nel 1923-24 il norvegese C. A. Larsen, con la nave-fattoria James Clark Ross e cinque caccia-balene e con lo scienziato Kohl Larsen compì la prima spedizione baleniera che la storia ricordi nel Mare di Ross, con sbarchi nell'isola Macquarie e nella Barriera di Ross.(…)
Per avere un'idea, appunto, dell'attività dei balenieri, si pensi che all'epoca alla quale presso a poco siamo arrivati, furono catturate nelle acque antartiche più di 50.000 balene. Le maggiori cacce erano fatte da balenieri norvegesi.» (15)

L'aspetto più propriamente imprenditoriale di Larsen è messo bene in luce dalla testimonianza dello scrittore Thomas Daring, il classico "cercatore di tesori", che ha viaggiato avventurosamente con ogni mezzo, dall'aeroplano all'imbarcazione fluviale, in ogni angolo del pianeta. Forse per una sintonia di fondo con le sue scelte di vita e con il suo carattere, egli ne dà un ritratto decisamente ammirato, anche se non nasconde l'apprensione per lo sterminio dei grandi cetacei che, fin dagli anni Venti del XX secolo, sembrava metterne in pericolo la sopravvivenza:

«Le balene, che con la loro malattia, con la loro ambra, ci avevano fatti ricchi e poi nuovamente poveri, fruttano annualmente ai cacciatori 2 milioni e mezzo di barili d'olio, cioè da 25 a 30 milioni di dollari. Esse sono quindi veri tesori dell'Artide e dell'Antartide. E uomini come il capitano Carl Anton Larsen di Sandefjord in Norvegia, sono, quantunque non si senta mai palare di loro, cercatori di tesori molto più notevoli di Cecil Rhodes o di Merensky, perché ciò che essi trovarono è oggi alla base della fabbricazione del sapone e di centinaia di altri articoli utili, non un oggetto inutile come lo sono i diamanti.
Il capitano Larsen è l'uomo che invece di lamentarsi insieme a tutti gli altri cacciatori di balene perché l'Artide dava sempre meno balene, si diede a cercare nuove zone di caccia. È l'uomo che nel 1904, riuscì a raccogliere, nonostante tutte le ironie e gli scetticismi il capitale necessario per una spedizione nel Mare di Weddell nell'Antartide. E con questo viaggio dimostrò di avere avuto ragione perché la vigilia di Natale del 1904 portò olio di balena a Grytviken, che è oggi un'importante base baleniere nelle isole sud-georgiane a est del Capo Hoorn.
Ottomila norvegesi lavoravano in quelle nuove zone alla vigilia della guerra mondiale. Ma subito dopo la guerra sorse la minaccia che nelle acque stendentisi tra le barriere di ghiaccio del Polo Sud, il Capo Hoorn e il Capo di Buona Speranza accadesse la stessa cosa successa nelle acque dell'Artide: ogni vita minacciava di scomparire, lo sterminio senza riguardo praticato dai cacciatori minacciava di causare la scomparsa delle balene.
Il capitano Larsen tornò a cercare nuove zone ricche di cetacei. Questa volta si aprì una via fra i ghiacci sino al Mare di Ross, dove da diecine d'anni nessun piroscafo era giunto. Da lì proseguì fino alla Baia delle Balene, dove sei anni dopo Richard Evelyn Byrd pose la base di "Piccola America". E per la seconda volta Larsen riuscì a trovare acque ricche, quando giunse nella notte del Natale. Quattro giorni dopo catturò la prima balena che fosse mai presa nel Mare di Ross. In pochi anni l'Antartide fornì circa il 70% della produzione mondiale di olio di balena, produzione che da 1.300.000 barili nel 1928-29, salì nel 1930-31 a 3.600.000. Era un quantitativo superiore a ciò che il mondo consumava per saponi e margarina. E perciò le maggiori società deliberarono di sospendere la caccia alla balena durante la stagione 1931-32, epoca in cui la produzione scese a 775.000 barili. la produzione dell'ultima stagione fu di 2.400.000 barili per un valore di circa 26 milioni di dollari [la traduzione italiana del libro di T. Daring "Ausbeuter der Natur" è del 1936, ma non è indicato l'anno dell'edizione originale; nota nostra].
Ma i viaggi del capitano Larsen non hanno portato un cambiamento soltanto nelle acque scelte per la caccia. Il suo migliore allievo, il capitano Oscar Nielsen, comanda oggi il Sir James Clark Ross, una baleniera di 22.000 tonnellate. Non si tratta più soltanto di un piroscafo, ma piuttosto di una fabbrica galleggiante, un'impresa grandiosa che impiega nella pesca delle balene aeroplani, corrente ad alta tensione e mitragliatrici. È una specie di gigantesca macelleria, per riempire i cui serbatoi di olio occorrono circa 1.200 balene e il cui esercizio è così costoso che soltanto per ricuperare le spese è necessario prendere almeno una balena al giorno (che fornisce circa cento barili di olio per un valore di mille dollari e con tutti gli altri prodotti secondari raggiunge un valore medio di 5.000 marchi).
Una media di 40.000 balene vengono catturate ogni anno. La sola Norvegia produce annualmente 1 milione 800 mila dei due milioni e mezzo di barili di olio di balena – ciascuno della capacità di 200 litri – prodotti in tutto il mondo.» (16)

Certo, il prezzo pagato dalla fauna marina delle isole sub-antartiche all'intraprendenza e allo spirito di sacrificio dei cacciatori di foche e di balene dei mari antartici fu terribile; molte specie furono cacciate fino all'estinzione. Perfino la flora di quelle estreme terre meridionali, particolarmente delicata e preziosa per gli endemismi prodottisi in quello stato di lungo isolamento, fu messa in grave pericolo dall'introduzione di piante infestanti di origine europea o dall'introduzione di mammiferi erbivori (tra i quali perfino la renna!) che, cibandosi del manto erboso, ridussero zone già ubertose di verde a delle squallide lande battute dai venti.
Scrive in proposito Ugo Scaioni:

«La civiltà della devastazione non ha neppure risparmiato lembi di terra lontanissimi dalle rotte marine continentali e che, per la loro desolante vicinanza ai ghiacci polari, potevano apparire le più inospitali all'uomo. Un esempio significativo è quello di alcune isole distanti poche migliaia di chilometri dalle coste dell'Antartide, la cui presenza fu per la prima volta segnalata circa due secoli fa dai vascelli inglesi "Adventure" e "Resolution", inviati dal capitano Cook in esplorazione nelle terre australi. Queste isole subantartiche (Kerguelen, Nuova Amsterdam, Saint Paul, Crozet, Macquarie) apparvero talmente poco attraenti agli equipaggi di Cook che furono soprannominate "terre della desolazione". In verità quelle lande spazzate dal vento polare non erano affatto prive di vita, animate com'erano da fitte colonie di foche, pinguini, albatros e altri uccelli marini.
Balenieri e cacciatori di foche cominciarono a sbarcare sulle isole da velieri che, sempre più numerosi, passavano per quelle latitudini. In circa quattro anni, dal 1810 al 1813, vennero uccisi circa duecentomila esemplari di una specie di otaria che popolava l'isola Macquarie e che, per sua sfortuna, era ricoperta da una magnifica pelliccia. La tecnica di "caccia" era poco raffinata, ma efficace data la mitezza dei mammiferi: si entrava in mezzo al branco e si colpivano gli animali con bastoni, fiocine, arpioni e scuri. Appena 7 anni più tardi, nel 1820, delle centinaia di migliaia di otarie che da secoli avevano dimorato sull'isola non esistevano che milioni di ossa sparse lungo le gelide spiagge.
Il trattamento riservato alle quattro specie di pinguini delle isole Crozet e Kerguelen fu ancora più sbrigativo. Dopo essere state massacrate a colpi di bastone, le bestie, fornite di abbondanti riserve di grasso, venivano con raccapricciante cinismo "spremute" sotto rudimentali torchi per ricavarne olio, o addirittura usate tali e quali come combustibile per alimentare i fuochi degli accampamenti. Agli albatros di Nuova Amsterdam fu invece fatale la "moda" di applicare alle pipe un cannello ricavato da un loro osso. Lo sterminio delle foche e dei pinguini obbedì a ragioni economiche: quello degli albatros servì soltanto a riempire il tempo libero dei cacciatori.
Un altro flagello si abbatté su queste isole: moltitudini di topi seguirono gli sbarchi degli uomini e si lanciarono all'assalto dei nidi degli uccelli marini, facendone una vera razzia. La natura non aveva provveduto a creare in quei luoghi i naturali nemici dei topi che potessero limitarne i danni. I topi poterono così compiere indisturbati le loro scorribande ai danni degli uccelli, e a nulla valse la presenza di gatti, pure sbarcati dalle navi, perché questi preferirono dedicarsi anch'essi ai gustosi nidi di uccelli, piuttosto che alle loro tradizionali vittime. Se l'introduzione dei topi in quelle terre fu accidentale, del tutto volontario fu invece lo sbarco di maiali, ovini e bovini, che rifornivano i cacciatori di carne fresca. I maiali diventarono veri e propri specialisti in procellarie, un piccolo passeraceo del quale scoperchiavano col grugno i nidi sotterranei, distruggendo uova e pulcini. Pecore e mucche invece si diedero da fare con la vegetazione locale che annoverava poche specie, assai abbondanti e adatte al clima ma assolutamente "impreparate" a svolgere il ruolo di pascolo per erbivori, dato che queste specie di animali non erano mai state presenti in quelle isole. Come risultato, i territori prima ricoperti da folta vegetazione furono ridotti a steppe semidesertiche, specie a Nuova Amsterdam. Per completare l'opera, questa stessa isola fu devastata nel 1950 e nel 1969 da giganteschi incendi, scoppiati per l'incuria di qualche occasionale visitatore.» (17)

Ci rimane ancora da dire, per completare il quadro della personalità e del valore del capitano Larsen, che in almeno due occasioni egli seppe farsi altamente apprezzare in ambito rigorosamente scientifico. La prima volta fu nel 1901, quando comandò la nave "Antarctic" che trasportava la Spedizione Antartica Svedese del professor Otto Nordenskjöld (nipote del grande esploratore Adolf Nordenskjöld, lo scopritore del mitico passaggio a Nord-Est dell'Artide), della quale faceva parte anche il botanico Carl Skottsberg, destinato a un brillante avvenire come studioso di fama internazionale. (18) La seconda fu quando, nel 1911, incontrò nella Georgia Australe il dottor Wilhelm Filchner, capo della Spedizione Antartica Tedesca, verso il quale fu prodigo di consigli ed aiuti, mettendo, fra l'altro, a disposizione degli scienziati germanici la piccola nave "Undine" per esplorare le coste dell'isola.
Non era dunque né un dilettante né un fanfarone, ma un uomo con una solida esperienza di cose antartiche sulle spalle, anzi, probabilmente il più esperto navigatore dei mari australi l'uomo che nel 1892, giovane poco più che trentenne, aveva fatto la straordinaria scoperta delle colonnine e delle palle di argilla sull'Isola Seymour. Anche se ebbe il torto di conservarle in casa sua, a Grytviken, ove più tardi andarono distrutte in un incendio, invece di consegnarle a qualche museo di antropologia o a qualche altra istituzione scientifica – come certo avrebbe dovuto – non è possibile liquidare tutta la faccenda come il fraintendimento di un sempliciotto o, peggio ancora, la frode deliberata di un buontempone a caccia di popolarità a buon mercato.
Larsen era già famoso, rispettato negli ambienti scientifici, ascoltato in quelli dell'industria baleniera; ed era già notevolmente ricco. Aveva riconosciuto e cartografato, per primo, ampi ratti di costa antartica, dando loro dei nomi nel puro stile dei "vecchi" navigatori ed esploratori, ad esempio in onore del re Oscar II di Svezia (19). Da lui ricevette il nome la barriera di ghiaccio che orla la costa orientale della Penisola Antartica, e tale denominazione resiste ancora oggi, nell'era della fotografia aerea e dei calcolatori elettronici: "Larsen Ice Field". Infine, aveva brillantemente superato la prova – allora inedita – di uno sverno forzato fra i ghiacci del Polo Sud, con tutto l'equipaggio, dimostrando di saper comandare un equipaggio non solo in condizioni normali, sul mare aperto, ma anche nelle strettezze e nelle ambasce di una permanenza invernale che aveva messo a durissima prova quei forti marinai, non abituati, però, alle mille difficoltà e ai mille pericoli (non solo materiali, ma anche psicologici) della terraferma antartica.
Non si vede perché mai un personaggio di questo genere avrebbe dovuto mettere a repentaglio la propria reputazione, solo per giocare uno "scherzo" di cattivo gusto alle spalle del mondo accademico internazionale, col quale era in rapporti di reciproca stima. Si può dire che, nel suo caso, mancasse del tutto il movente per compiere un falso; è vero che, oltre al movente, con l'incendio della sua casa è andato in fumo anche il "corpo del reato", per cui chi si è occupato di questa vicenda ha la spiacevole sensazione di girare e rigirare della sabbia fra le dita.
La statura di Larsen quale studioso ed esploratore dei mari antartici è messa bene in evidenza da questo rapido profilo biografico dovuto, sempre, al lavoro infaticabile del compianto Silvio Zavatti, che lo volle inserire nel suo apprezzatissimo "Dizionario degli Esploratori":

«Larsen Carl Anton. Esploratore e baleniere norvegese, nato a Tjölling nel 1860, morto nel Mare di Ross nel 1924. Dopo aver navigato da ragazzo nei mari del Nord, nel 1892-93 e 1893-94 accompagnò la nave "Jason" negli Arcipelaghi dell'Antartide Occidentale con lo scopo di scoprire ed esplorare nuovi territori nel mare ad Est della Terra di Graham, le cui coste erano praticamente sconosciute fra i 64° e i 68° di latitudine Nord. Larsen le battezzò: Costa del re Oscar II e Terra Foyn e in parte le cartografò. Scoprì poi numerose isole in quelle acque e da quella di Seymour riportò rocce e fossili che servirono a provare l'esistenza di rocce sedimentarie nell'Antartide. Raggiunse anche la latitudine Sud di 68°10' lungo la costa della Terra di Graham, cosa che mai nessuno era riuscito a fare. Nel 1901-04 fu capitano dell'"Antarctic" che portava la spedizione di Otto Nordenskjöld. Il 12 febbraio 1903 la nave fu stritolata dai ghiacci e Larsen riuscì a fare svernare felicemente l'equipaggio nell'isola Paulette. La spedizione fu salvata da una nave argentina e sbarcata a Buenos Aires dove Larsen propose ai mercanti del luogo la fondazione di una "Compañia Argentina de Pesca", con sede nella Georgia Australe, con capitali argentini, ma dirigente, operai ed equipaggi norvegesi. Nel 1914 Larsen si ritirò dalla direzione della Compagnia e ritornò in Norvegia. Nel 1923 prese l'iniziativa di fondare la Compagnia baleniera "Rossahavet" e guidò egli stesso la prima spedizione sulla nave fattoria "Sir James Clark Ross", impiegando per la prima volta il metodo pelagico che consisteva nel catturare e lavorare la balena in mare aperto, senza alcun contatto con la terraferma. L'anno dopo, guidando una seconda campagna, morì. Le sue ricche collezioni antartiche furono da lui donate ad istituzioni norvegesi e svedesi.» (20)

Delle "colonnine" dell'isola Seymour si tornò a parlare nel 1974, quando apparve la prima edizione del libro di uno studioso italiano decisamente "anomalo", l'ammiraglio Flavio Barbiero. Il titolo era assai intrigante, "Una civiltà sotto ghiaccio": in esso l'Autore sosteneva che il racconto platonico relativo al continente di Atlantide era perfettamente plausibile e andava preso alla lettera, e che l'unica possibile collocazione geografica di quest'ultima era nel continente antartico, che risponderebbe a tutti i requisiti di cui si parla nel "Timeo" e nel "Crizia". L'idea era originalissima, anche se – sul momento – non valse ad accendere una seria discussione in proposito; se ne impadronirono, giusto vent'anni dopo, due autori canadesi, Rand e Rose Flem-Ath, che ne divulgarono l'idea di fondo (senza mai citare Barbiero) rendendola popolare grazie a una grossa campagna pubblicitaria. (21)
L'originalità dell'idea di Barbiero consisteva nel fatto che egli proponeva, né più né meno, una nuova teoria sull'origine delle glaciazioni. Secondo lui, inoltre durante la glaciazione di Wurm il Polo Sud doveva trovarsi all'incirca sull'orlo della Terra Adélie, ossia sulla costa dell'Antartide che guarda verso la Tasmania; e, per conseguenza, mentre vaste regioni dell'Australia sud-orientale e della Nuova Zelanda dovevano trovarsi strette nell'inesorabile morsa dei ghiacci (come testimoniano le forme del modellamento glaciale, specie nell'Isola del Sud neozelandese), la costa dell'Antartide rivolta verso l'America del Sud (Penisola Antartica e Mare di Weddell) doveva essere libera dai ghiacci e godere di un clima sopportabile da parte dell'uomo. Quest'ultimo avrebbe potuto giungervi, qualcosa come 20.000 anni fa, scendendo lungo l'estremità del continente americano e compiendo l'ultimo balzo, attraverso lo Stretto di Drake, mediante piroghe, magari trascinato involontariamente dalle tempeste. Ancora 12.000 anni fa (guarda caso, la data indicata da Platone per la fine di Atlantide) quella parte del continente antartico doveva essere sgombra dai ghiacci, almeno sulla costa, e vi crescevano foreste proprie di un clima temperato. Egli avrebbe localizzato anche la capitale di Atlantide e il luogo ove sorgeva, secondo il racconto di Platone, il grande tempio dedicato al dio del mare, Poseidone: la parte nord-orientale dell'isola Berkner, attualmente ricoperta dai ghiacci.
Tutto questo spiegherebbe, tra l'altro, il "mistero" della carta di Piri Reis, risalente al 1513 ma costruita sulla base di indicazioni cartografiche antiche di migliaia di anni. Anche se l'ammiraglio turco di cui essa porta il nome non si spinse mai fuori del Mediterraneo, egli ebbe modo di accadere a delle carte incredibilmente vecchie; anche se non agli originali dell'antica civiltà marinara della stessa Atlantide-Antartide, almeno a delle copie di epoca successiva, che testimoniavano, comunque, delle conoscenze non solo di tipo geografico, ma anche astronomico e matematico, che nessuno in Europa o nel resto del mondo avrebbe dovuto possedere, stando ai dati della scienza "ufficiale". Barbiero non era un geologo – e forse per questo i geologi non presero sul serio il suo lavoro – tuttavia la teoria da lui formulata con calore di appassionato e con rigore di studioso appariva capace di rendere conto di una serie di fatti altrimenti difficilmente spiegabili, e fino ad allora semplicemente negletti dagli scienziati (geologi, glaciologi, climatologi, archeologi, storici) di professione.
Ma diamo la parola allo stesso Autore, per ascoltare dalle sue stesse parole il punto centrale della sua teoria:

«Il polo Nord, come si è detto, si trovava tra la Groenlandia e l'Islanda, di conseguenza anche il Polo Sud era spostato, e precisamente di circa 2.500 chilometri alla posizione attuale, in direzione delle isole Macquarie, poste fra la Tasmania e l'Antartide. Esso cadeva molto vicino alla costa antartica, nei pressi dell'attuale polo magnetico. È ovvio quindi che tutta la parte dell'Antartide rivolta verso l'Oceania, e cioè la Terra di Marie Byrd, il mare di Ross, le terre Adélie, di Wilkes e della Regina Mary, erano coperte dai ghiacci come lo sono ora, o anche di più. Ghiacci che, grazie alla verticalità dell'asse terrestre, dovevano spingersi bene addentro fin nel cuore del continente; e dovevano anche interessare tutte le zone montagnose dell'isola, indipendentemente dalla loro latitudine. A questo proposito è molto interessante vedere quale sia il significato della parola Aztlan, in Azteco: esso significa "luogo del candore": un nome quanto mai appropriato per un continente che doveva essere occupato quasi per due terzi dai ghiacci, e le cui cime erano perennemente ammantate di neve.
Tutta la fascia costiera che si affaccia verso l'America, l'Africa e l'Asia, invece, vale a dire la Penisola di Palmer, l'area di Weddell, la Terra della Regina Maud, di Enderby etc. fin oltre la baia di Mackenzie, doveva essere completamente sgombra dai ghiacci. La sua latitudine era all'incirca uguale a quella odierna dell'Europa, fino ad un minimo di 40° di latitudine sud. Grazie alla quasi verticalità dell'asse terrestre, le differenze stagionali erano allora ridotte al minimo. Inoltre l'area di Weddell, con le zone limitrofe, doveva essere a quei tempi investita da una calda corrente equatoriale, simile all'attuale Corrente del Golfo, che contribuiva a rendere ancora più elevata la temperatura, e assicurava piogge abbondanti e regolari. Temperatura mite e costante, periodo di insolazione diurna praticamente uguali per tutto l'anno permettevano ovviamente il prosperare di qualunque specie vegetale, per cui non sembra affatto esagerata la descrizione di Platone e tutte quelle che parlano di Atlantide come di un giardino paradisiaco. Quanto agli animali, in particolare gli elefanti, ed ai vegetali, la maggior parte delle specie dovevano essere state importate dall'uomo; le specie autoctone, infatti, dovevano essere limitate a foche, pinguini e epoche altre, sopravvissute ai precedenti periodi cosiddetti 'interglaciali' durante i quali l'Antartide presentava un aspetto analogo a quello odierno.
Come vi fosse giunto l'uomo è un problema che affronteremo più avanti; ma non sembra così grave, se si considera che la distanza dell'Antartide dagli altri continenti, soprattutto il Sud America, è piuttosto ridotta.» (22)

Quest'ultima affermazione, in realtà, appare eccessivamente ottimistica: lo Stretto di Drake, che costituisce la via d'acqua più stretta fra l'Antartide e gli altri continenti – in questo caso, il Sud America – è ampio in media 900 km. (23): una distanza tutt'altro che trascurabile, e sia pure ammettendo che l'estremità sud-occidentale del continente americano fosse abitata allora, come lo era in tempi storici, da popoli che vivevano di pesca e possedevano discrete doti di navigatori (canoeros), anche se non certo paragonabili, ad esempio, a quelle dei Polinesiani. (24) Tuttavia non è da escludere che esseri umani su fragili imbarcazioni per la pesca costiera, afferrati dal mare in tempesta, abbiano potuto attraversarlo fortunosamente, se è verosimile che perfino dei navigatori dei mari caldi del Sud Pacifico abbiano potuto raggiungere l'Antartide, come afferma un antico racconto dei Maori (25); mentre è ammesso da molti studiosi che abbiano toccato le coste dell'America meridionale, importandovi piante coltivate la cui presenza costituirebbe, altrimenti, un enigma inspiegabile.

«Non si coltivarono cereali [da parte dei Polinesiani], ma la palma da cocco, l'albero del pane, il banano, la patata dolce; inoltre il cotone. Alcune di queste piante (banano, patata dolce, cotone) si trovano anche in Sudamerica; il problema della loro origine ha dato luogo a vivaci discussioni, tuttora in corso, e s'intreccia col problema più generale dei rapporti fra l'Oceania e il continente americano.
Lo studioso norvegese Thor Heyerdahl sostiene che nel I millennio d.C. i navigatori provenienti dal Sudamerica hanno raggiunto l'Oceania portandovi alcune piante, e contribuendo a formare la civiltà polinesiana in alcuni dei suoi aspetti più caratteristici (arte, religione, tradizioni).
Oggi anche altri studiosi ammettono che alcune piante coltivate in Oceania siano di origine sudamericana, ma credono che esse siano state importate dagli stessi Polinesiani: va ricordato che questi ultimi sono sempre stati esperti marinai, mentre non vi sono dati sufficienti per attribuire analoghe qualità agli abitanti dell'America meridionale.» (26)

E che dire delle spedizioni moresche verso l'estremo nord dell'Europa, fino alla lontanissima Islanda, nel corso del XVI e XVII secolo, circa le quali siamo perfettamente informati? (27) Tutto questo, però, non deve sospingerci nella vasta cerchia dei "creduloni", di cui si diceva prima. Una cosa è ammettere la "possibilità" di un viaggio, magari involontario, degli Yahgan o degli Alakaluf della Terra del Fuoco e dell'estremità continentale del Cile fino alle isole antartiche prospicienti lo Stretto di Drake; un'altra, e ben diversa, è sostenere che sulle coste del Mare di Weddell fiorì una prospera civiltà, addirittura quella di Atlantide, o anche soltanto che quei gruppi umani giuntivi fortunosamente dall'America del Sud crebbero sino a fondare una comunità perfettamente organizzata. Del resto, se l'Antartide è l'Atlantide di Platone, a che scopo farvi immigrare i poveri primitivi "canoeros", che sopravvivevano al puro livello di pescatori e raccoglitori, né avevano mai formato dei gruppi più numerosi di un modesto "clan" familiare?
Quanto all'importazione degli elefanti in Antartide, questa supposizione – a tutta prima – sembra essere stata fatta solo per cercare di soddisfare a uno dei requisiti dell'Atantide di Platone. Scrive infatti, nel "Crizia" (che, com'è noto, rimane interrotto dopo appena poche pagine) il grande filosofo ateniese, nel descrivere le ricchezze e la fauna del continente perduto:

«La stirpe di Atlante dunque fu numerosa e onorate poiché era sempre il re più vecchio a trasmettere al più vecchio dei suoi figli il potere, preservarono il regno per molte generazioni, acquistando ricchezze in quantità tale quante mai ve n'erano state prima in nessun dominio di re, né mai facilmente ve ne saranno in avvenire, e d'altra parte potendo disporre di tutto ciò di cui fosse necessario disporre nella città e nel resto del paese. Infatti molte risorse, grazie al loro predominio, provenivano loro dall'esterno, ma la maggior parte le offriva l'isola stessa per le necessità della vita: in primo luogo tutti i metalli, allo stato solido o fuso, che vengono estratti dalle miniere, sia quello del quale oggi si conosce solo il none – a quel tempo invece la sostanza era più di un nome: l'oricalco, estratto dalla terra in molti luoghi dell'isola, ed era il più prezioso, a parte l'oro, tra i metalli che esistevano allora – sia tutto ciò che le foreste offrono per i lavori dei carpentieri: tutto produceva in abbondanza, e nutriva poi a sufficienza animali domestici e selvaggi. In particolare era qui ben rappresentata la specie degli elefanti. Difatti i pascoli per gli altri animali, per quelli che vivono nelle paludi, nei laghi e nei fiumi e così per quelli che pascolano sui monti e nelle pianure, erano per tutti abbondanti e altrettanto lo erano per questo animale [cioè l'elefante], nonostante sia il più grosso e il più vorace. A ciò si aggiunga che le essenze profumate che la terra produce ai nostri giorni, di radici, di germoglio, di legni, di succhi trasudanti da fiori o da frutti, le produceva tutte e le faceva crescere bene; e ancora, forniva il frutto coltivato e quello secco [probabilmente, la vite e il grano] che ci fa da nutrimento e quei frutti dei quali ci serviamo per fare il pane – tutte quante le specie di questo prodotto le chiamiamo cereali – e il frutto legnoso che offre bevande, alimenti, e oli profumati, il frutto dalla dura scorza, usato per divertimento e per piacere, difficile da conservare [forse la mela?], così quelli che serviamo dopo la cena come rimedi graditi a chi è affaticato dalla sazietà [le olive o, forse, i limoni]: tali prodotti l'isola sacra che esisteva allora sotto il sole, offriva, belli e meravigliosi, in una abbondanza senza fine. Prendendo dunque dalla terra tutte queste ricchezze, costruivano i templi, le dimore regali, i porti, i cantieri navali e il resto della regione, ordinando ogni cosa nel seguente modo…» (28)

D'altra parte, Barbiero sostiene che i resti di elefante trovati in Sud America sono stati a bella posta definiti come appartenenti al mastodonte, solo perché la paleontologia "ufficiale" trova troppo imbarazzante ammettere che in quel continente vivevano degli elefanti in tutto simili a quelli africani ancor oggi esistenti. Il che riaprirebbe uno spiraglio a favore dell'attendibilità della presenza degli elefanti nell'Atlantide platonica, ossia nell'Antartide odierna.
Quanto, poi, all'ipotesi di Barbiero, secondo la quale in tempi storici vi sarebbe stato uno spostamento di popolazioni dall'estremità meridionale dell'America alla Penisola Antartica e oltre, potrebbe esservi una circostanza a suo favore: l'abbassamento del livello del mare durante le ultime glaciazioni terrestri.
Come già aveva fatto notare il professor C. Hapgood nella sua opera pionieristica del 1966, durante l'Era Glaciale il livello dei mari era più basso di circa 120 metri. Ciò significa che lo Stretto di Drake era più stretto di quanto non lo sia oggi, e che non solo la Terra del Fuoco era saldamente unita al resto del continente americano, ma la Penisola Antartica si protendeva notevolmente verso nord, inglobando tutte le isole che, attualmente, le fanno corona, tanto sul versante occidentale (Shetland Australi e Arcipelago di Palmer), sia su quello settentrionale e orientale (Orcadi Australi, Joinville, Ross, Seymour). Forse esisteva addirittura un "ponte" di erre emerse che collegava la piattaforma delle Flakland/Malvine con la Georgia Australe e le Sandwich Australi, ossia il Sud America con l'Antartide. In quelle condizioni, il passaggio dell'uomo dalla Terra del Fuoco al continente antartico può essere stato indubbiamente agevolato, anche se certamente non quanto quello dalla Siberia all'Alaska mediante l'istmo glaciale di Behring. (29)
Ma attenzione: ribadiamo il concetto che una cosa è ammettere la possibilità di un determinato evento, mentre una cosa ben diverse è arguirne che esso si sia effettivamente verificato. (30)
Una causa necessaria non è detto che sia anche causa sufficiente perché un dato evento si produca: questo, fra l'altro, è il limite intrinseco di ogni ragionamento deduttivo applicato alla scienza (che ragiona in termini di universalità). Lo aveva già rilevato Popper e, prima di lui, molti altri filosofi, tra i quali Hume: per quanti fenomeni noi possiamo concretamente osservare, non potremo arrivare a estrapolarne delle leggi veramente rigorose.
Per esempio, dopo aver constato che tutti i cigni da noi osservati sono bianchi, saremmo tentati di trarne la conclusione che "tutti" i cigni sono bianchi; salvo poi, durante un viaggio in Australia, scoprire che esistono anche i cigni neri, e vedere così la nostra teoria crollare miseramente sotto l'urto di una nuova esperienza. A rigore, non avremmo neanche il diritto di affermare che domani sorgerà il Sole: è soltanto l'"abitudine" (diceva Hume) che ci porta a fare un tal genere di previsioni; tutto quello che noi possiamo fare sarebbe semplicemente dire che "fino ad oggi" il Sole è sempre tramontato e poi sorto di nuovo. Così, quando Thor Heyerdhal credette di dimostrare, col famoso viaggio della zattera "Kon-Tiki", che gli antichi Peruviani avevano raggiunto le isole dell'Oceania (31), in realtà aveva soltanto dimostrato che ciò era "teoricamente" possibile. Ci siamo soffermati un po' diffusamente su questo punto perché, se non vorremmo collocarci fra coloro i quali negano per partito preso ogni nuova ipotesi o fatto che sembri collidere con le idee scientifiche ammesse dalla comunità accademica, nemmeno desideriamo vederci arruolati nella schiera dei creduloni o dei visionari.
Barbiero, comunque, ipotizza che il popolamento dell'Antartide avvenne a mezzo di zattere e che i nuovi abitanti non provenivano dalla relativamente vicina America, ma dalle coste dell'Asia meridionale, donde sarebbero stati portati da un complesso gioco di correnti marine. È ovvio che, per rendere ragione dei nomi geografici adoperati da Platone, egli è costretto a reinterpretarli in un senso del tutto nuovo: così, ad esempio, le "Colonne d'Ercole" erano il passaggio fra le isole Shetland, Orcadi e Sandwich Australi, e "in un secondo tempo" sarebbe passato a designare l'odierno Stretto di Gibilterra.
Ma cediamogli ancora la parola:

«Nei tempi prima del diluvio, almeno la fascia costiera del Pacifico, attualmente sommersa, doveva essere abitata da fiorenti colonie atlantidi, resesi indipendenti e concorrenti della madrepatria., sì da giustificare questa guerra. E le "Colonne d'Ercole"? Non ci vuol molto a trovarle: un'occhiata alla carta e vediamo come la rotta fra il mare di Weddell e l'America del Sud sia sbarrata da un immenso arco di isolette, formato dalle Shetland, Orcadi e Sandwich del Sud allineate l'una in fila all'altra, come un lungo grandioso "colonnato". Il livello del mare più basso doveva far sì che le loro coste apparissero alte e scoscese, tanto da sembrare anche singolarmente delle grandi "colonne" emergenti dalle acque. Questo arco di isole delimitava le acque interne e sicure del mare di Weddell dall'oceano immenso e periglioso; inoltre dovevano costituire esse stesse un notevole pericolo per la navigazione, sì da essere assai rinomate presso quel popolo di marinai. È comprensibile che il loro nome sia stato più tardi attribuito anche allo stretto di Gibilterra, che delimita le acque interne del Mediterraneo, da quelle infide e misteriose dell'Atlantico. Ma il nome di "Colonne d'Ercole" è senza dubbio più appropriato per queste isole che non per stretto." (…)
Quante volte una tempesta, un piccolo errore di rotta, una semplice esitazione fece loro [cioè i popoli marinari dell'Asia sud-orientale: nota nostra] mancare il bersaglio e si videro trascinare nell'aperto oceano?
Possiamo presumere che accadesse piuttosto spesso. E dove andavano a finire? È proprio questo il punto interessante: qualunque imbarcazione che partisse da un qualsiasi punto delle coste orientali dell'oceano Indiano, se non riusciva a fermarsi subito, veniva inesorabilmente spinta dai venti e dalla corrente verso… l'Antartide.
La linea dell'Equatore passava allora a nord di Ceylon e della Malesia; al di sotto dell'Equatore gli alisei soffiavano costantemente verso occidente; ed analogamente agli alisei moderni, essi provocavano una corrente oceanica, che costeggiava il Sud Africa e puntava direttamente verso lo stretto di Drake; una parte si incanalava forse nello stretto, mentre la rimanente formava una controcorrente, che ritornava indietro, bordeggiando tutta la costa antartica che si affaccia all'Atlantico. Qui venivano sospinti i "naufraghi" strappati alle coste dell'Indonesia e di Ceylon.
Si potrebbe pensare che dopo un viaggio così lungo le zattere arrivassero cariche soltanto di cadaveri, ma è un'idea del tutto errata ;esperienze recenti dimostrano che un uomo può sopravvivere indefinitamente in un mare tropicale, sfruttando soltanto le risorse alimentari che riesce a procurarsi durante il viaggio…» (32)

Giunti a questo punto possiamo chiederci chi è Flavio Barbiero, e perché le sue tesi, per quanto ardite, siano cadute a suo tempo nella quasi completa indifferenza, mentre idee analoghe hanno addirittura creato una sorta di "moda" culturale, appena qualche anno dopo, provenendo dall'estero.
Barbiero è nato a Pola (allora italiana) nel 1942, si è laureato in ingegneria a Pisa ed è entrato nel 1961 nell'Accademia Navale di Livorno. Dopo aver frequentato i centri di ricerca della marina Militare e della N.A.T.O., raggiungendo il grado di ammiraglio, nel 1998 si è ritirato dal servizio attivo. Ha partecipato a due spedizioni in Antartide, nel 1975 e nel 1978, animato dal desiderio di trovare quelle prove archeologiche della sua teoria "atlantidea" che si troverebbero sotto i ghiacci nella zona del Mare di Weddell, specialmente sull'Isola Berkner.
Scrittore ed esploratore, "Una civiltà sotto ghiaccio" non è la sua unica pubblicazione. Ha collaborato con l'archeologo Emmanuel Anati, che ha identificato la montagna sacra di Mosé non nel Monte Sinai, come da tradizione, bensì nel massiccio di Har Karkom, molto più a nord, in territorio israeliano. Anche nel campo degli studi medio-orientali, Barbiero ha dato prova di notevole originalità, pubblicando due libri controversi, ma comunque stimolanti: "Alla ricerca dell'Arca dell'Alleanza" e "La Bibbia senza segreti", che hanno destato un certo scalpore nell'ambiente giornalistico, mentre sono stati accolti – anche questa volta – da un assordante silenzio in quello propriamente scientifico. (33)
Può essere che la sua qualifica di ingegnere non sia stata sufficiente, agli occhi degli ambienti archeologici "ufficiali", per farlo prendere veramente sul serio; oppure l'arditezza delle sue tesi, non sempre suffragate da prove convincenti, può aver contribuito a tale risultato. Chi lo prese sul serio, con l'entusiasmo giovanile che sempre lo ha caratterizzato, fu uno studioso fra i più rinomati in Italia, quel prof. Silvio Zavatti che, fondatore dell'Istituto Geografico Polare, si era fatto apprezzare come il massimo esperto, probabilmente, di cose polari che vi fosse allora nel nostro Paese, autore fra l'altro di centinaia di pubblicazioni in merito. Barbiero, ufficiale di Marina poco più che trentenne (e non ancora ammiraglio) si era rivolto a lui in cerca di aiuti per condurre una spedizione di ricerca all'isola Berkner, sede, a suo parere, della capitale di Atlantide descritta da Platone. Zavatti, che aveva condotto alcune spedizioni nell'Artide ma che invano si era adoperato perché il Governo italiano finanziasse una stazione meteorologica permanente sull'Isola Bouvet, da lui visitata, con mezzi privati, nel 1959 (34), era a sua volta alle prese con una cronica scarsità di mezzi finanziari e predicava, profeta inascoltato, circa l'opportunità e la necessità che l'Italia si impegnasse seriamente nell'esplorazione scientifica dell'Antartide. Il nostro Paese non aveva ancora aderito al Trattato Antartico all'epoca in cui Zavatti scrisse la prefazione al libro di Barbiero "Una civiltà sotto ghiaccio", dalla cui seconda edizione riportiamo la parte conclusiva:

«Dopo la pubblicazione della prima edizione di questo volume, avvenuta nel dicembre 1974, si è cominciato a ricercare Atlantide un po' ovunque: un ingegnere anconetano l'ha localizzata in Egitto sulla base di complicati calcoli trigonometrici e di messaggi spiritici che non hanno risolto un bel nulla e hanno fatto scempio del racconto platoniano; i Greci, servendosi addirittura del nome famoso di Jacques-Yves Cousteau, la vogliono a tutti i costi a Santorino e nelle acque del Mare Egeo, ma i resti di Atlantide non sono venuti alla luce e di lì non verranno mai per placare gli spiriti tormentati dei molti ricercatori teorici.
Al principio del 1976 l'Ing. Barbiero ebbe la possibilità di aggregarsi a una spedizione alpinistica e un po' scientifica, organizzata alla garibaldina, che per una ventina di giorni operò nella Penisola Antartica, una regione, cioè, molto lontana dal mare di Weddell e dall'isola Berkner, ma che poteva pur sempre riservare delle sorprese. Infatti fu nell'isola Seymour che il Capitano norvegese C. A. Larsen trovò, nel 1893 una cinquantina di palline di sabbia e "cemento" messe su colonnette dello stesso materiale. Larsen scrisse che quegli oggetti sembravano "fatti da una mano umana". Un'espressione generica per dire che erano oggetti fatti molto bene? Forse, e infatti non li fece mai studiare o analizzare ed oggi, purtroppo, non li possediamo più perché andarono distrutti nell'incendio della sua casa a Grytviken (Georgia Australe).
Nel corso della spedizione del 1976 l'Ing. Barbiero scoprì, nell'isola re Giorgio (una del gruppo delle Shetland Australi),una grande quantità di tronchi semifossilizzati che potrebbero risalire a 10-12.000 anni fa. Purtroppo gli istituti scientifici ai quali erano stati inviati i campioni di questi tronchi per la datazione col metodo del C 14 non hanno fatto conoscere ancora la loro risposta. In Antartide sono stati trovati, a più riprese, fossili di alberi e di altre piante (Robert Falcin Scott stesso ne riportò moltissimi), ma se i tronchi semifossilizzati scoperti da Barbiero risalgono veramente a un massimo di 12.000 anni fa, si ha la prova che l'Antartide fino a quell'epoca poteva essere abitata e molti fatti coinciderebbero con le affermazioni contenute nei libri di Platone e, di conseguenza, con l'ipotesi avanzata da Babiero in questo volume. Si avrebbe anche un'ulteriore prova che la teoria delle quattro glaciazioni che avrebbero interessato la Terra è sbagliata e che numerose altre glaciazioni, di estensione più locale e di durata minore, si verificarono a periodi alternati in varie parti del nostro globo.
Intanto, mentre questa nuova edizione vede la luce, Barbiero è ritornato in Antartide con una sua piccola spedizione, osteggiata o ignorata da chi poteva aiutarla e abbandonata all'ultimo minuto da chi aveva fatto solenni promesse.
L'augurio di tutti è che riporti, dalla sua avventura, le prove che la sua teoria è valida e che Platone va considerato, ancora una volta, maestro di verità.» (35)

Ci resta ancora una cosa da dire, e cioè che nell'estate australe 1999-2000 un navigatore a vela italiano, Galileo Ferraresi, ha voluto ripercorrere la rotta della nave di Carl Anton Larsen nel 1892-93, la "Jason", che – come si ricorderà – altro non era che la futura "Stella Polare" del Duca degli Abruzzi. Navigando tra i canali della Terra del Fuco e poi spingendosi fino alle coste della Penisola Antartica, Ferrari intendeva dare il suo contributo alla soluzione del duplice mistero posto dall'Isola Seymour: la presenza di piante fossili, testimonianze di un clima temperato "forse già in tempi storici"; e la presenza delle colonnine sormontate da palle di ghiaia e sabbia, testimonianza, forse, di "una presenza umana in Antartide" antecedente l'arrivo degli esploratori e dei cacciatori di balene europei e americani. Nel corso del viaggio egli ritiene di aver trovato le prove di uno spostamento dell'asse geografico terrestre, che potrebbe spiegare un brusco cambiamento climatico in quelle estreme regioni del Pianeta; tutto ciò è stato affidato alle pagine di un libro che è il resoconto di quell'impresa, notevole anche solo dal punto di vista nautico e, al solito, da pochi notata proprio in Italia. (36)

Ci avviamo a concludere, ed è tempo di tirare le somme di quanto siamo andati fin qui esponendo, senza nulla nascondere della estrema difficoltà di pervenire a una "conclusione" vera e propria. Ci siamo resi conto, infatti, che il mistero dell'Isola Seymour è probabilmente destinato a rimanere tale, a meno che qualche fatto veramente nuovo non permetta di gettare un raggio di luce nelle tenebre fitte ove, nostro malgrado, abbiamo dovuto muoverci. Un fatto di tal genere non dovrebbe essere qualcosa di meno del rinvenimento di almeno una delle famose "colonnine" e delle relative "palline" trovate da Larsen, o sull'isola stessa, o fra i beni degli eredi del capitano norvegese. Ma ci rendiamo ben conto che sarebbe chiedere un po' troppo alla fortuna, la quale sinora è stata piuttosto avara nei nostri confronti.
Quello che ci sentiamo di escludere è che Larsen abbia visto degli oggetti di origine minerale, e ciò per le ragioni già esposte a suo tempo. Anche se non era un geologo ma un uomo di mare, Larsen era tutt'altro che uno sprovveduto: e, se disse che quegli oggetti "avevano tutta l'aria di essere stati fatti da mani umane", la cosa più ragionevole da fare è credergli.
Certo, si tratta di una "strana" testimonianza", perché contrasta con quanto sappiamo, o crediamo di sapere, sulla storia passata dell'umanità e, in particolare, sulle condizioni di abitabilità dell'Antartide in tempi relativamente recente (non oltre, cioè, i 12.000 anni fa). Tuttavia, tutto quel che sappiano del capitano Larsen depone a favore della sua attendibilità; e, dopotutto, egli non ha mai dichiarato di aver visto atterrare dei dischi volanti, o di aver incontrato dei Rettiloidi – con buona pace degli Scienziati con la S maiuscola che si adombrano per molto meno di così.
A nostro avviso, è necessario accostarsi a problemi come quello dei "manufatti" dell'Isola Seymour con mente sgombra da pregiudizi scientisti e con l'umile consapevolezza della nostra profonda ignoranza su molte cose riguardanti il mondo della natura e quello della storia umana. La realtà è che noi, attualmente, non possediamo che sparsi brandelli di conoscenza che abbiamo cucito insieme, più o meno arbitrariamente, per ricavarne l'impressione di un sapere omogeneo e unitario; ma non è così.
Per limitarci alla sola storia dell'Antartide, sono veramente molte le cose che non sappiamo e che difficilmente saremo in grado di accertare con un buon grado di probabilità. Non siamo in grado di pronunciarci – lo si è detto – sull'impresa nautica di Hui-Te-Rangi Ora, navigatore polinesiano di cui parlano le tradizioni orali del popolo maori. (37) Non siamo in grado di capire come e perché sia "scomparso" l'arcipelago delle Auroras, ripetutamente avvistato nell'estremo Atlantico meridionale da esperti marinai, e poi svanito nel nulla. (38) Né siamo in grado di spiegare la presenza di impronte di zoccoli sulla neve fresca nelle Isole Kergélen, notata da sir James Clark Ross nel 1839, dato che non avrebbero dovuto esistere mammiferi ungulati in quella terra. (39) L'episodio era poi stato alquanto ingigantito dai racconti superstiziosi dei marinai: si era parlato di "un orrendo cadavere (…) un uomo con una bottiglia in mano, un'espressione di terrore nello sguardo e, davanti a lui, volte nella sua direzione, gigantesche impronte di piede…" (40)
Sono tante, tantissime le cose che ignoriamo. Ignoriamo di che natura fosse la "cosa" a bordo della nave russa "Ivan Vassili", che nel 1903 fu teatro di fenomeni raccapriccianti, tali da condurre alla morte una parte dell'equipaggio e da terrorizzare del tutto la rimanente. (41) E ignoriamo come la mistica Maria de Agreda, fra il 1622 e il1630, riuscisse a convertire migliaia di Indiani del Texas apparendo loro e predicando, ma in effetti senza aver mai attraversato l'Atlantico e, anzi, "senza mai lasciare le mura del suo convento in Spagna". (42) Lunghissimo sarebbe l'elenco; preferiamo fermarci qui.
"Ignoramus et ignorabimus", "non sappiamo e non sapremo mai": così il fisiologo tedesco (ma di ascendenze francesi) Émile Dubois-Reymond manifestava la propria sfiducia nelle capacità della ragione umana di risolvere tutti i problemi e di risolvere tutti gli enigmi che l'universo ci presenta. Questa espressione, da lui adoperata nell'opera "Über die Grenzen Naturerkennens", del 1872, dovrebbe far riflettere coloro i quali pensano che per ogni domanda, un poco alla volta e lavorando con metodi adeguati, la Scienza (con la S maiuscola, si badi bene) riuscirà a trovare la debita risposta, come se fosse solo una questione di tempo. Eppure Duboys-Reymoind non era né un mitomane, né un credulone, né un visionario; era uno scienziato assolutamente positivo. Teneva lezione alla cattedra di Fisiologia all'Università di Berlino, come dire nel "Sancta sanctorum" della scienza accademica europea. E si rivolgeva ad un pubblico che, nel terzultimo decennio del XIX secolo, viveva nel clima inebriante del Positivismo giunto al suo culmine, quando molti pensavano che il connubio ragione-scienza avrebbe fornito la chiave capace di spalancare qualsiasi porta.
E allora?
E allora è necessario continuare a cercare, sempre, con metodo e onestà intellettuale, per trovare le risposte che soddisfino la nostra inesausta sete di conoscere. Ma con molta, molta umiltà. E con la consapevolezza che, davanti a certe porte chiuse, non sarà la chiave del Logos calcolante e strumentale a darci mai la risposta – ammesso che ve ne sia una accessibile alle nostre piccole menti.

Note:
1. Charles Hapgood, "Maps of the Ancient Sea Kings", Adventure Unilimited Press,1966. La traduzione italiana, con il titolo "Le mappe della civiltà perduta", è solo di questi ultimissimi anni (Ed. Profondo Rosso, 2004); perciò nel nostro Paese non vi è stato alcun dibattito sulle tesi dell'A., già note nel mondo anglosassone da quattro decenni, e oggetto di accesa (ancorché contrastata) discussione anche negli ambienti scientifici "ortodossi".
2. Cfr. Paolo Albani, Paolo Della Bella (a cura di), "Forse Queneau. Enciclopedia delle scienze anomale", Bologna, Zanichelli,1999.
3. Particolarmente interessanti "le indagini dello scienziato russo Immanuel Velikovsky, che avevano come oggetto il mammuth di Beresovka, trovato congelato in Siberia verso il 1901, in posizione semieretta e con dei ranuncoli tra le fauci. Con ogni evidenza, perché una flora del genere fosse presente, bisognava che il clima avesse subito un cambiamento assai improvviso…": Colin Wilson, – Flem Ath, Rand, "Gli eredi di Atlantide", Casale Monferrato, Ed. Piemme, 2001, pp. 29-30.
4. "(…) la spedizione antartica italiana del 1976, guidata da Renato Cepparo, ha scoperto nell'isola King George (62° lat. Sud) una foresta fossile lunga 2 km. e larga 200 mt., che ammantava circa 12.000 anni fa questa isola delle Shetland meridionali, dove oggi non vi sono che ghiaccio e neve": Francesco Lamendola, "Il limite antartico della vegetazione arborea", in "Il Polo", vol. 3, 1986, p. 30.
5. Marco Taviani, "In diretta dall'Antartide".
6. Come al solito, gli Occidentali pensano di essere stati i primi scopritori: in questo caso, il cap. Bristow avrebbe avvistato le Isole Auckland solo nel 1806 (cfr. "Enclyclopaedia Britannica", ed. 1961, vol. 2, p. 671.
7. Cfr. Graham Hancock, "Impronte degli dei", Milano, Corbaccio,1996, spec. pp. 9-45.
8. Roger A. Caras, "L'Antartide", Milano, Garzanti, 1964, pp. 17-18: 164.
9. Fonte: Biblioteca Comunale di Cesenatico in collaborazione con l'Associazione di Cultura nautica "MondoMare" di Cesenatico.
10. Difficile, per non dire impossibile, pensare a un fenomeno dovuto al dilavamento delle acque selvagge, sul tipo degli "omeni", ovvero "piramidi di terra" a Segonzano, in Val di Cembra (Trento). Infatti "le piramidi di erosione (…) si osservano in terreni poco resistenti nei quali le acque dilavanti scavano una rete di solchi separati da piramidi superstiti, perché salvaguardate da massi isolati che servono di tetto protettivo. Questo si verifica spesso in depositi morenici ridotti a coltri di sabbie, o sabbie argillose, nelle quali sono immersi grossi ciottoli isolati": così Roberto Almagià, "L'Italia", Torino, U.T.E.T., 1959, tomo I, p. 41-44.
11. Walter Sullivan, "Alla ricerca di un continente", Firenze, Edizioni Casini, s. d., p. 17, che però parla di "un frammento di pino fossile"; mentre dal racconto di Larsen risulta esplicitamente che gli alberi pietrificati appartenevano ad una specie di latifoglie, testimonianza di un clima decisamente temperato.
12. Giotto Dainelli, "La conquista della Terra. Storia delle esplorazioni", Torino, U.T.E.T., 1954, p. 705.
13. "Sono i balenieri infatti a proseguire le navigazioni australi e a scoprire, una alla volta, le piccole isole sub-antartiche – Campbell e Macquarie nel 1810, Heard nel 1833 insieme alle varie spedizioni scientifiche delle potenze europee, degli Stati Uniti e da ultimo anche del Giappone": Francesco Lamendola, "Terra Australis Incognita", su "Il Polo", vol. 3, 1989, p. 55. Vedi anche Francesco Lamendola, "Mendana de Neira alla scoperta della Terra Australe", su "Il Polo", vol. 1, 1990, pp. 19-24; Id., "La ricerca della Terra Australis Necdum Cognita", su "Kur" (Treviso, Ass. "La Venta", n. 8, 2007, pp. 14-15.
14. Silvio Zavatti, "L'esplorazione dell'Antartide. Storia di un continente", Milano, Mursia, 1974, pp.49-50.
15. Ibidem, pp. 135, 148.
16. Thomas Daring, "Sfruttatori della natura", Milano, Bompiani, 1936, pp. 191-93.
17. Ugo Scaioni, "La rivoluzione industriale" (vol. 16 dell'enciclopedia "Il pianeta dell'uomo"), Milano, A. Mondadori, 1976, pp. 93-96.
18. Francesco Lamendola, "Carl Skottsberg, un naturalista alla scoperta dell'estremo Sud", in Il Polo, vol. 3, 1988, pp.11-17.
19. Oscar II regnò per trentacinque anni, dal 1872 al 1907. Si tenga presente che fra la Norvegia e la Svezia esisteva dal 1814 una unione personale (sotto la dinastia svedese) che fu sciolta – in modo del tutto pacifico, – solo nel 1905. Il 7 giugno di quell'anno, infatti, lo "Storting" (il Parlamento di Oslo) dichiarò sciolta l'unione con la Svezia a causa del rifiuto di re Oscar di accettare una rappresentanza consolare autonoma per la Norvegia. Il 13 novembre la corona norvegese venne offerta al principe Carlo di Danimarca, che salì al trono col nome di Haakon VII. Nel 1907 il neocostituito regno di Norvegia ottenne il riconoscimento della sua piena indipendenza da parte della comunità internazionale.
20. Silvio Zavatti, "Dizionario degli esploratori e delle scoperte geografiche", Milano, Feltrinelli, 1967, pp. 166-167.
21. Rand e Rose Flem-Ath, "When the Sky Fell. In Search of Atlantis",1995; trad. it. con il titolo "La fine di Atlantide", Casale Monferrato, Ed. Piemme, 1997.
22. Flavio Barbiero, "Una civiltà sotto ghiaccio", Milano, Editrice Nord, 1974; seconda ediz. 1977, pp. 76-77.
23. "Moderna Enciclopedia Rizzoli", ed. 1977, vol. 6, p.254. Secondo "The American People's Encyclopedia", ed.1969, vol. 6, p. 470, "the strait, named for sir Francis Drake, is about 400 miles wide from N to S and 500 miles long".
24. Nel caso degli Yaghan, il popolo più meridionale del mondo (frequentavano anche l'arcipelago di Capo Horn), "in origine le canoe erano fragili strutture di corteccia, ma a un certo punto gli Yahgan appresero a costruire le canoe scavate, che sono molto più sicure, anche se meno veloci e manovrabili. Gli Yahgan dipendevano totalmente dalle loro imbarcazioni per la sussistenza e il trasporto": X. De Crespigny, "L'ultima degli Yahgan", nella enciclopedia "I popoli della Terra", Milano, A. Mondadori, 1973, vol. 6, pp. 120-122. Per le navigazioni dei Polinesiani, vedi il classico Pter Buck, "I Vichinghi d'Oriente. Le migrazioni dei Polinesiani", Milano, Feltrinelli, 19161.
25. Francesco Lamendola, "La scoperta antartica di Hui-Te-Rangi-Ora". Una epopea polinesiana sulla rotta del Polo Sud", su "Il Polo", vol. 2, 1988, pp. 12-37.
26. Filippo Cassola e Lelia Cracco Ruggini, "Le grandi civiltà del passato", Firenze, La Nuova Italia, 1982, pp. 94-95.
27. Francesco Lamendola, "La spedizione algerina in Islanda del 1627", su "Il Polo", vol. 3, 1987, pp. 35-39; Id., "La spedizione moresca in Islanda", nel vol. misc. "Terra di ghiaccio. Arte e civiltà dell'Islanda", Torino, Museo naz. della Montagna, 1989, pp. 167-170.
28. Platone, "Crizia", 114d-115c, trad. di Umbero Bultrighini, in "Platone, tutte le opere", Roma, Newton & Compton ed., 1997, vol. 4, pp. 675-677.
29. Cfr. Graham Hancock, "Civiltà sommerse", Milano, TEA, 2005, p. 365-371.
30. Qui bisognerebbe fare una distinzione fra il piano ontologico dell'essere (che è presente assoluto) e il piano della realtà effettuale, storia compresa (che è immerso nella dimensione spazio-temporale caratterizzata da passato, presente, futuro). Per quanto riguarda il primo di essi, come abbiamo sostenuto in numerosi scritti (vedi ad esempio: Francesco Lamendola, "Il passato può essere cambiato o è radicalmente immodificabile?"; e "Una forma di magia nera: la psicanalisi", tutti gli eventi possibili sono, perciò stesso, reali, anche se nel mondo fenomenico possiedono un differente statuto ontico (enti materiali; ricordi; immaginazioni; concetti puri, ecc.). Cfr. anche Francesco Lamendola, "L'unità dell'Essere", Poggibonsi, Lalli Ed., 1985. Ma non è certamente questa la sede per approfondire un simile argomento. 31. Cfr. Thor Heyerdahl, "Kon-Tiki, 4.000 miglia su una zattera attraverso il Pacifico", Milano, Martello,1951; G. F. Fenin, "Kon-Tiki e la traversata del Pacifico",su "L'Universo", Firenze, n. 6, 1951.
32. Flavio Barbiero, Op. cit., pp. 78; 105.
33. Flavio Barbiero, "Alla ricerca dell'Arca dell'Alleanza", Milano, Sugarco Ed., 1985; Id., "La Bibbia senza segreti", Milano, Rusconi, 1988. Cfr. anche le recensioni: Antonio Socci, "Abramo e Sara erano ariani?", su "Panorama" del 2 marzo 2000; Id., "Sulle orme di Mosé, con Egeria sul 'vero' Sinai", su "Il Giornale" del 25 febbraio 2000.
34. Silvio Zavatti, "Viaggio all'isola Bouvet", Bologna, Malipiero, 1960; e Gianluca Frinchillucci, "Silvio Zavatti e l'esplorazione dell'isola Bouvet", in "Il Polo", vol. 1-2 del 2002, pp. 69-70.
35. Silvio Zavatti, "L'Atlantide e una nuova teoria", prefaz. a Flavio Barbiero, "Una civiltà sotto ghiaccio", cit., pp. XIV-XV.
36. Galileo Ferraresi, "Una fragola tra i ghiacci", Verona, Edizioni Il Frangente, 2004. Vedi anche, dello stesso A., "L'avventura di Rata e Maui", Macerata, Stampalibri, 2004, dedicato ai problematici rapporti marittimi fra Oceania e Sud America in epoca precedente l'arrivo dei navigatori europei.
37. Silvio Zavatti, "Dizionario degli esploratori e delle scoperte geografiche", cit., p. 150. L'Autore di questo articolo possiede inoltre una lettera autografa del prof. Zavatti (del 4 marzo 1975), nella quale scriveva testualmente: "…è un po' incredibile che con una piroga dell'epoca sia stato possibile un tale viaggio. Ma non è neppure da escludere! [la sottolineatura è del mittente]."
38. Francesco Lamendola, "Il mistero delle isole Auroras", su "Il Polo", Fermo (Ascoli Piceno), vol. 3 del 2004, pp. 25-39.
39. Francesco Lamendola, "Il mistero delle isole Kerguélen", su "Il Polo", vol. 1, 2007, pp. 57-71; e Colin Wilson, "Realtà inesplicabili", Rizzoli, Milano, 1976 pp. 128-129.
40. Geoffrey Jenkins, "Mare vento ghiacci" (titolo or. "A Grue of Ice"), Milano, Longanesi & C., 1971, pp. 233-234.
41. Francesco Lamendola, "Ivan Vassili, la nave maledetta", su "Il segno del soprannaturale", Tavagnacco (Udine), aprile 2007, pp. 24-29. Vedi. anche Vincent Gaddis, "Il triangolo maledetto e altri misteri del mare", Milano, Armenia Ed., 1977.
42. Francesco Lamendola, "Le bilocazioni miracolose di Maria de Agreda" (1622-1630), su "Il segno del soprannaturale", marzo 2007, pp. 10-11.

 

Fonte: Edicolaweb.net

{mos_fb_discuss:4}