Il Codice Snefru - Ipotesi di interpretazione della Stele di Snefru

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« Risposta #15 il: 01 Maggio 2015, 01:17:40 am »
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Parte 6: Il Codice Snefru - Ipotesi di interpretazione della Stele di Snefru

La struttura archeoastronomica della Cappella dei Leoni e dei Rinoceronti di Chauvet in relazione a quelle del Circolo di Nabta Playa e della Camera della Regina






1. Forse, l’esempio più utile per iniziare la nostra indagine sono delle strutture sacre recenti e ancora relativamente vicine al nostro modo di vedere il mondo, come la volta delle basiliche o dei battisteri bizantini, o quello delle cattedrali del barocco. In questo tipo di strutture oggi si entra attraverso una piccola porta – ricavata da un grande ingresso monumentale che oggi rimane quasi sempre chiuso. Poi, dopo un percorso rettilineo più o meno lungo, si arriva fino a una volta che sovrasta l’altare, in cui viene rappresentato il cielo. Naturalmente, l’immagine del cielo che lì possiamo contemplare non coincide affatto con le rappresentazioni astronomiche moderne, che lo vedono come uno smisurato spazio senza centro, in rapida espansione, in cui il caso ha sparso ammassi di gas che bruciano a temperature altissime, che forse solo per tradizione ancora chiamiamo “stelle”.

Al contrario, al tempo in cui queste volte vennero costruite, lo spazio aveva ancora un centro e una struttura di cieli (o, per meglio dire, di “sfere”) che vi ruotavano attorno. Il cielo più alto, quello per solito rappresentato nelle volte, veniva pensato come una sorta di motore immobile, che faceva ruotare quelli sottostanti. In questo Cielo supremo si pensava abitassero entità divine o divinizzate (le tre Persone della Trinità, gli Evangelisti, Santi, Beati, Angeli ed Arcangeli), che nelle volte barocche e bizantine si offrono alla contemplazione piena di speranza di chi, ancora in vita, tenta di entrare in contatto spirituale con quell’eternità in cui vede la sua futura beatitudine dopo il breve e tormentoso passaggio di questa vita terrena.

In questo genere di strutture sacre, lo splendore del divino e della vita eterna viene molto spesso sottolineato dall’abbondanza di ori e dorature di ogni sorta, al punto che l’oro pare una divina sostanza dalla quale i personaggi emergono come per magia, pur rimanendo di quest’oro profondamente intrisi e quasi in esso confusi (nella statuaria Antico Egizia si nota una simile intenzione estetica, anche se la materia è diversa dall’oro: accade infatti molto spesso che le figure scolpite nella pietra rimangano in parte confuse con essa;  il che pare un indizio che quella sostanza divina che nel bizantino e nel barocco è rappresentata dall’oro, nell’architettura e nella scultura sacra Antico Egizia fosse rappresentata dalla pietra).

Nelle basiliche bizantine e nelle cattedrali barocche la dominanza dell’oro era un effetto estetico che veniva rafforzato molto spesso da una vetrata che, lasciando filtrare una luce bianco-giallastra e/o marrone, inclina ancor più l’occhio a – diciamo così – impastare gestalticamente le forme e i colori con gli ori e le dorature. Ancora oggi, ove i luoghi sacri siano conservati in buono stato e l’illuminazione adottata rimanga quella originale, quest’effetto si può ancora contemplare in tutta la sua profondità estetica, religiosa e metafisica.

2. È del tutto ovvio che il cielo rappresentato nelle volte bizantine o barocche, pur non avendo alcuna relazione con il modo “realistico” in cui lo vede qualsiasi occidentale moderno – astronomo o persona di media cultura che sia – non ha però, almeno apparentemente, nemmeno alcuna relazione con il modo con cui veniva visto da culture antiche o antichissime, come gli Antichi Egizi, i Babilonesi, o i Maya. Tutte genti che, proprio come i cristiani del bizantino e del barocco, vedevano nel cielo la sede del divino.

Una prima e del tutto ovvia diversità la possiamo rilevare nel fatto che questi popoli concepivano il mondo divino come composto da una molteplicità di dèi e non da un solo Dio. Ma questa differenza appare davvero trascurabile, in relazione a un’altra che appare ben più radicale e fondamentale. Infatti, queste antiche culture concepivano le entità celesti che si possono osservare nel cielo notturno e diurno – e dunque sole, luna, stelle e pianeti – come divinità in un senso assolutamente letterale e realistico. Tanto per i Maya che per gli Antichi Egizi il Sole, per esempio, non era da concepirsi come un dio in senso lato e metaforico, ma in senso immediato e diretto: vedere il sole era letteralmente vedere la divinità. Lo stesso valeva per qualsiasi altro corpo celeste divinizzato, fosse esso una stella, una costellazione, la luna o un pianeta.

Per fare un altro esempio, che riguarda da vicino l’oggetto di questo scritto, gli Antichi Egizi vedevano la costellazione di Orione letteralmente come Osiride, il dio della morte e resurrezione. A nessun sacerdote-astronomo di quel tempo sarebbe mai venuto in mente quel che oggi pensano tutti gli astronomi e gli uomini di media cultura occidentali, e cioè che questa costellazione, come tutte le altre, non sia nulla di più che un gruppo di stelle più o meno arbitrariamente e convenzionalmente separato dalle altre per dare un ordine qualsiasi al caos del cielo stellato, in cui, a prima vista, risulta del tutto impossibile orientarsi e in cui è molto difficile distinguere un’entità da un’altra.

Questa divinizzazione immediata dei corpi celesti a un cristiano del tempo bizantino sembrava probabilmente una terribile bestemmia (scambiare la creatura col Creatore). Invece, al tempo del barocco, molto prima che come una minaccia alle verità di fede e di ragione, una credenza di questo genere sarebbe stata forse giudicata più che altro come una follia degna di una mente barbara, frutto o di un’irrimediabile arretratezza o di una genuina inferiorità razziale (gli Indios adoratori del sole vennero giudicati privi di anima e ridotti in schiavitù con la stessa naturalezza e buona coscienza con cui lo facevano i Greci Classici con i prigionieri di guerra: con ogni probabilità, le loro credenze religiose, i loro riti e i loro idoli venivano visti come un segno della loro maggior prossimità al mondo animale e demoniaco degli istinti piuttosto che a quello umano).

Oggi come oggi, forse nessuno scienziato si sognerebbe di pensare e men che meno di scrivere che i popoli che chiamiamo “primitivi” siano privi di anima. Ma non vi è dubbio che, messo alle strette, non diciamo ogni scienziato, ma anche solo ogni uomo di media cultura moderno si senta costretto a bollare come una superstizione qualsiasi genere di credenza riguardante stelle e pianeti che li giudichi qualcosa di diverso da un ammasso caotico di sostanze chimiche. Fra gli astronomi vi sono senz’altro dei cristiani ferventi, ma anche loro, quanto alla natura del cielo e dell’universo, hanno radicalmente cambiato opinione rispetto ai loro correligionari di qualche secolo fa.

Infatti, se prendiamo Dante e la Divina Commedia come esempio dell’antica cosmologia cristiana, vediamo che rispetto a quel tempo le cose sono molto cambiate. Oggi come oggi Dio e il mondo divino non vengono collocati dalla teologia in una zona dello spazio oltre le stelle fisse e, in generale, l’al di là viene considerato come un ambito puramente spirituale, totalmente e assolutamente trascendente. Se di uno spazio divino pur si parla, sempre si tratta di uno spazio radicalmente “altro”, per così dire, di uno spazio fuori dallo spazio. Di certo, non si tratta della prosecuzione di quello in cui ci muoviamo tutti i giorni, che è stato radicalmente ed interamente “laicizzato” dalla scienza moderna.

In questo spazio, dove tutto è misurabile e calcolabile, non vi può essere alcun luogo privilegiato ove si possano legittimamente collocare le Tre Persone della Trinità, gli Angeli e gli Arcangeli, i Santi e i Beati. In questo senso, la cosmologia scientifica – oggi pienamente accettata dalla Chiesa Cattolica, che con Giovanni Paolo II giudicò l’idea del Big Bag in linea con il racconto della Genesi – esclude a priori che la Terra o qualsiasi altro luogo nello spazio possano essere considerati il centro dell’universo. Ma, se si esclude il centro, per forza di cose si debbono escludere anche tutte quelle sfere celesti che un tempo si credeva vi ruotassero attorno, compresa quella delle stelle fisse, al di sopra della quale si era soliti collocare Dio e tutte le creature a lui vicine.

3. Volendo adottare una prospettiva evoluzionista, risulta spontaneo attribuire al “selvaggio”, ovvero all’uomo appena uscito dal suo “stato naturale”, la credenza “ingenua” che la Terra sia il centro dell’Universo, e che il cielo sia la sede di divinità, raffigurate come animali o come creature per metà uomini e per metà animali. Queste figure venivano proiettate su sole, luna, pianeti, o forse “ispirate” da gruppi di stelle che suggerivano in modo più o meno diretto le loro forme, reali o fantastiche che fossero.

Ma, pur partendo da una conoscenza del cosmo tanto “primitiva”, lentamente ma inesorabilmente l’uomo “si evolve”. Pur considerando ancora la terra come centro dell’universo, con il paganesimo Greco Classico si cessa quasi del tutto di considerare come divinità le entità che si vedono nel cielo. Così, per esempio, quegli stessi dèi, che un tempo venivano identificati immediatamente con i pianeti, erano diventati al tempo di Aristotele del tutto simili a degli esseri umani, anche se immortali e molto più potenti (a questo proposito Aristotele scrive che “un tempo si credeva che gli dèi fossero pianeti”). La sede dove questi dèi si radunavano era a sua volta vicina e raggiungibile, la cima di un monte sacro, non più il cielo inaccessibile, e invece che con corpi celesti venivano identificati con entità terrestri, naturali o artificiali che fossero (una fonte o un albero erano considerati divinità, ma lo erano anche una porta o il focolare: in pratica, non vi era entità terrestre che non fosse considerata in qualche modo un dio).

Le entità celesti avevano già perso così gran parte di quell’enorme importanza che avevano rivestito nel passato profondo dell’umanità. Anzi, evoluzionisticamente parlando possiamo considerare il paganesimo Greco Classico come il primo passo compiuto dall’umanità verso un radicale abbandono della religione fondata sull’adorazione dei corpi e dei cicli celesti, che nel passato doveva essere assolutamente universale.

Con il cristianesimo però, questa concezione radicalmente “umanistica” e perciò panteistica della divinità introdotta dal paganesimo Greco Classico viene abbandonata, e il cielo torna in questo modo ad essere importante in quanto sede del divino. In effetti, un Paradiso situato oltre il cielo delle stelle fisse rende ancora bene l’idea della trascendenza senza perdere quella concretezza necessaria a un uomo che si suppone ancora non abbastanza “evoluto” per concepire il divino in modo totalmente spiritualizzato.

Ma questo rinnovato interesse del cristianesimo per il cielo non fa sì che il sole, le stelle, la luna ed i pianeti riacquistino alcuna vera importanza teologica. Il Dio uno e trino è un’entità spirituale e trascendente che viene prima del mondo e non nasce insieme ad  esso, come accade nelle antiche religioni, che appaiono piuttosto radicalmente panteistiche.

Per esempio, nella visione Antico Egizia prima di Atum – la divinità suprema – vi era il nulla, e il mito non consente di comprendere se Atum sia creato dal Nulla stesso inteso a sua volta come una divinità (come si dice nel Tao, che il Nulla generò l’Essere), o se vi appaia magicamente per autogenerazione. Gli altri dèi dell’enneade vengono invece da Atum, che genera dapprima una coppia di divinità, che ne procreano altre e dalle quali alfine nasce anche l’uomo (che però non ha alcun posto centrale nella creazione, dato che gli Antichi Egizi consideravano che vi fossero animali molto più vicini al divino di qualsiasi essere umano, eccettuato il Faraone: un po’ come accade oggi in India con le vacche, o in altre parti dell’Asia con le scimmie).

Al contrario, il Dio del cristianesimo esiste prima e indipendentemente dal cosmo, e se è vero che ha creato il sole, la luna, le stelle e i pianeti, né lui né alcuno dei suoi angeli si possono identificare con essi, come con nessun’altra creatura immediatamente percepibile con i sensi, eccetto Cristo stesso, la cui permanenza nel mondo in forma umana è stata però di soli 33 anni e, contrariamente a quella di Dioniso, non è destinata a ripetersi. Inoltre, nel cristianesimo l’uomo ha un’importanza assolutamente centrale nella creazione, e i corpi celesti hanno agli occhi di Dio minor importanza dell’uomo. Nel Vangelo infatti, anche il più umile fra gli esseri umani appare creato con un’anima destinata a durare per l’eternità, mentre sole, luna, stelle e pianeti sono destinati a svanire alla fine dei tempi.

Certo, a ben vedere, nelle volte bizantine e barocche ancora restano delle vaghe tracce dell’antica importanza dei corpi celesti e dei calendari connessi. I  dodici apostoli ricordano i dodici mesi dell’anno e dunque i dodici segni dello zodiaco, e in molti modi viene fuori il sette, chiara allusione alla settimana lunare (nella Basilica di S. Vitale in Ravenna Cristo viene rappresentato con sette personaggi a destra e sette a sinistra: si tratta probabilmente di un’allusione numerologica al ciclo delle fasi lunari).

Notevole è anche il fatto che nelle rappresentazioni bizantine la Santissima Trinità rimanda in modo quasi automatico alle tre stelle polari. I tre bastoni che le figure nella foto sotto tengono in mano non sembrano altro che gli assi polari corrispondenti a ognuna delle tre stelle che, nel corso dei circa 26000 anni di un ciclo precessionale, si succedono come centro di rotazione del cielo stellato. Allusioni al ciclo precessionale sembrano apparire anche nell’icona rappresentante S. Michele, la cui lancia pare indicare l’inclinazione del polo terrestre rispetto a quello dell’eclittica. Né sembra che possiamo spiegare in altro modo le braccia stese dell’Arcangelo e il semicerchio che le sovrasta, se non come simbolo del cerchio percorso dal polo terrestre attorno all’asse dell’eclittica. In modo simile possiamo spiegare anche il particolare angolo della Croce di S. Andrea






Ma, come abbiamo già visto, con un’ulteriore evoluzione del pensiero scientifico, tutte queste allusioni all’antica astronomia e astrologia svaniscono del tutto, al punto che nel cristianesimo moderno il cielo descritto dalla fisica è destinato a perdere anche il ruolo di sede, diciamo così, geografica del Paradiso. Questo in un certo senso pare ovvio. In un cosmo che ha perduto il centro, dove cartesianamente ogni punto equivale ad ogni altro, nessuno può seriamente teorizzare che un luogo possa essere la sede privilegiata del divino.

In effetti, relativisticamente parlando (ovviamente, qui ci stiamo riferendo alla relatività di Einstein, non al relativismo culturale) ogni punto d’osservazione vale l’altro, e dunque ogni stella o ogni galassia vale l’altra. È chiaro che a questo punto non si può più collocare Dio spazialmente “nell’Alto dei Cieli”, se lo spazio non conosce l’alto né il basso, né qualsiasi punto di orientamento oggettivo. Oggi, con tutto quello che sappiamo di fisica e di astronomia, ci sembra assolutamente incredibile che per un numero imprecisato di millenni gli esseri umani abbiano considerato assolutamente ovvio il fatto che la terra fosse il centro dell’universo, e che il cielo e le entità celesti fossero viste addirittura come delle divinità. La questione che affrontiamo in questo articolo è proprio questa: per quanti millenni è andata avanti questa credenza ovvero: da quanti millenni esiste? Da quanto e per quanto tempo astronomia e teologia sono state delle conoscenze complementari, o quasi dei sinonimi?

4. Come il lettore avrà intuito già dal titolo, la tesi che affermiamo in questo articolo è radicale. Con questo lavoro vogliamo mostrare che l’astronomia matematizzata, concepita come contemplazione del divino, è andata avanti come minimo per diverse decine di migliaia di anni, e che in questo momento non siamo in grado di neppur ipotizzare il punto iniziale di questa tradizione.

Entrando maggiormente nel dettaglio, la nostra tesi è che già al tempo di Chauvet, ovvero attorno al 30-32000 AC, tanto l’orizzonte notturno che quello diurno venivano attentamente scrutati e accuratamente (cioè geometricamente) descritti e che ciò avveniva da molte migliaia di anni. Che dunque già allora ci si era resi perfettamente conto dei mutamenti ciclici del cielo notturno, connessi con la precessione degli equinozi. Ancor più in particolare, lo scopo di questo articolo è di mostrare che quella che viene chiamata “la Cappella dei Leoni e dei Rinoceronti” ha un senso teologico-astronomico – diciamo così – uguale e contrario a quello della Camera della Regina, che si trova all’interno della Grande Piramide di Giza.


« Ultima modifica: 01 Maggio 2015, 07:25:47 am da ∞ ℋℴ℘ℰ ∞ »

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« Risposta #16 il: 01 Maggio 2015, 01:28:04 am »
Molte immagini le trovate sotto spoiler...
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Il primo passo che conviene fare per procedere nell’analisi è quello di osservare in quale punto delle cave si collochi e come sia orientato questo antichissimo sito, forse una delle più grandiose espressioni pittoriche che la  cultura paleolitica ci abbia lasciato in eredità.

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Come possiamo vedere, la Cappella dei Leoni e dei Rinoceronti, che in questa piantina viene chiamata “End Chamber”, si trova all’estremità nord del complesso di cave che prende il nome dal suo scopritore – Jean-Marie Chauvet. La prima cosa che conviene notare è un fatto del tutto ovvio, tanto ovvio che viene per solito omesso da coloro che si occupano di siti come questo, ovvero che inoltrarsi nelle viscere della terra per quasi cinquecento metri risulta un’impresa di una certa consistenza anche per uno speleologo moderno, attrezzato di tutto punto. Oggi i pochissimi visitatori ammessi possono accedere alla caverna per mezzo di percorsi artificiali e con l’ausilio dell’illuminazione elettrica, con l’assoluta certezza di non perdere l’orientamento e di non fare brutti incontri: eppure, anche in questo modo, penetrare dentro queste viscere rocciose viene descritta come un’esperienza che può rivelarsi molto inquietante, se non proprio terrificante. Così, è facile immaginare che inoltrarvisi privi dei comodi supporti offerti dalla tecnologia moderna debba essere stata già di per sé un’impresa degna di nota, al di là della magnificenza delle pitture che vi furono poi eseguite.

Bisogna infatti considerare che a quel tempo le cave, oltre a costituire un pericolo di per sé, erano certamente frequentate da orsi e presumibilmente da leoni delle caverne, avversari temibili ovunque, ma particolarmente minacciosi in un ambiente di questo genere. Infatti, durante un eventuale combattimento questi e altri simili predatori, sul terreno scivoloso e a volte ripido e dissestato delle cave, avevano il vantaggio fondamentale di avere il doppio dei punti d’appoggio di un uomo. Anche in condizioni difficili come queste per un quadrupede è quasi impossibile perdere l’equilibrio, cosa che invece può accadere molto facilmente a un bipede.

Inoltre, siccome orsi e leoni le armi non dovevano tenerle in pugno, nemmeno potevano essergli di impaccio, o avere il timore di perderle. Le condizioni di buio assoluto  davano un ulteriore vantaggio a questi animali, abituati ad orientarsi con l’udito e con il fiuto. Invece l’uomo, il cui organo di senso fondamentale è la vista, non aveva allora a disposizione altro tipo di illuminazione che quella piuttosto incerta delle torce.

Stante ciò, nessuna persona minimamente dotata di buon senso, e in particolar modo uno storico, o un antropologo o un paleontologo, può anche solo ipotizzare che degli esseri umani culturalmente evoluti si siano gettati in un’avventura così terrificante senza avere un obbiettivo più che serio. Il livello estetico delle pitture che sono state ritrovate in queste cave è talmente alto che nessuno può pensare che coloro che ve le hanno tracciate fossero “degli stupidi selvaggi”, ovvero degli incoscienti che spingendosi in quegli abissi non avessero idea dei rischi a cui andavano incontro. Se questi rischi vennero in ogni caso affrontati, dobbiamo per forza di cose immaginare che vi fosse in gioco un obbiettivo che doveva essere per loro molto importante, o, per meglio dire, sacro.

Questo è un pensiero molto arduo per un intellettuale moderno, perché oggi come oggi siamo quasi del tutto incapaci di credere che un essere umano possa rischiare la vita del corpo per degli scopi che hanno a che fare con la vita dello spirito (una parola che, nel clamore del consumismo imperante, ha perso forse qualsiasi reale significato, almeno a livello collettivo). Eppure, ci basterebbe pensare alla vicenda non poi così lontana delle Crociate per renderci conto che nel passato, quella che oggi appare una follia o un’eccezione del tutto straordinaria, era al contrario la più ovvia delle regole.

Quelle migliaia di nobili del Nord Europa che fecero migliaia di chilometri per andare a combattere con addosso decine di chili di ferro arroventati da un sole che passava facilmente i cinquanta gradi, non lo fecero per scopi che oggi giudicheremmo “razionali”, ovvero per una qualche “utilità” (anche perché qualunque utilità diventa inutile quando si è morti). Semplicemente, quelle erano persone che credevano fermamente che le terre che andavano a conquistare fossero sacre e che la loro sacralità dovesse essere difesa con le armi.

Anche i monumenti più splendidi che possiamo trovare nella tradizione cristiana non nacquero per motivi che avessero a che fare con qualche utilità pratica. Per esempio, Piazza dei Miracoli a Pisa, un vero miracolo di proporzioni ed elaborazione decorativa e architettonica, non fu voluta dai potenti del luogo per confermare in questo modo il loro potere (è questo lo scopo “razionale” che spesso si attribuisce a monumenti come le Piramidi): venne voluta dal popolo per ringraziare la Madonna per la vittoria sui saraceni.

In generale, quanto di bello, grande e importante possiamo trovare nel mondo attuale o in quello storico non ha nulla a che fare con qualche genere di “utilità”, o con “scopi pratici”. La gloria non è mai connessa con l’utile, ma con il divino, cioè con delle fedi religiose. Per esempio, la fede più diffusa del nostro tempo è la “fede nel progresso”, ed è proprio questa fede a “spiegare” la produzione di gadget elettronici o automobili dalle prestazioni sempre più mostruosamente esorbitanti rispetto ai bisogni reali di chi li acquista, non la loro presunta “utilità” (in specie se si pensa che utilizzare un’auto moderna al 50% delle sue possibilità in un contesto quotidiano costituisce un reato molto grave, che in certi casi conduce dritti dritti alla galera).

5. Dunque, nelle caverne di Chauvet e nelle altre che furono poi dipinte non ci si avventurò per caso, ma furono invece consapevolmente ed intenzionalmente esplorate. Nel profondo di esse si cercava qualcosa: ma cosa? Invece che procedere per ipotesi fondate sulla mentalità dell’uomo moderno, andiamo a vedere cosa hanno trovato o cosa possono aver creduto di trovare queste persone – che vedevano le entità celesti come divinità – in quella che è stata chiamata Cappella dei Leoni e dei Rinoceronti.

Entrando, più o meno nel centro della sala, vi è uno spuntone roccioso in forma di stalattite. Nella piantina sottostante viene indicato con il nome “The Sorcerer” a causa della figura che  vi è stata tracciata, e che analizzeremo dopo nei dettagli. Questo spuntone roccioso si trova di fronte a una cripta attorniata da pitture piuttosto enigmatiche, quello che nell’immagine sottostante è chiamato “Panel of Liones and Rhinos”

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Quella figura che nell’immagine sopra viene chiamata “The Sorcerer” viene anche molto spesso definita come un Minotauro, dato che, come vediamo sotto, se i suoi organi genitali sembrano indiscutibilmente quelli di una donna, sembra altrettanto certo che siano stati collocati fra le gambe di quello che può sembrare un toro (o forse si tratta di un bisonte).
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Se la osserviamo con attenzione, vediamo che la strana forma che assume questa figura deriva dal fatto che questo Minotauro non viene rappresentato di fronte o di profilo, ma bensì mentre va ad avvitarsi con il busto intorno alla pietra su cui è dipinto (anzi, guardando ancora più attentamente, si può avere la sensazione che il Minotauro si avviti su sé stesso, o, più precisamente ancora, che ruoti con il busto attorno alle sue gambe posteriori e ai suoi genitali). Infatti, come si può ben vedere dalla serie delle tre foto, la zampa anteriore sinistra – che possiamo senz’altro attribuire al Minotauro – è identica all’altra nel cui incrocio è stato collocato il sesso femminile che verosimilmente dovrebbe trovarsi fra le zampe posteriori. Quindi nel dipinto sembra che troviamo anche quest’altra stranezza, o quest’altro paradosso: che il sesso della creatura viene rappresentato fra una zampa posteriore che è rimasta immobile e una anteriore che assieme al busto ha girato attorno alla pietra.

Sembra che possiamo essere certi che entrambe le zampe appartengono al Minotauro perché non si possono riconoscere nel dipinto altre figure animali o umane a cui poterle attribuire. Infatti, il leone che vediamo nella foto a destra – che pure sembra avere qualcosa a che fare con il Minotauro – ha le zampe anteriori correttamente posizionate sotto al collo (anche se sono appena accennate). Dunque, l’unico modo plausibile di interpretare questa figura sembra questo: che il Minotauro viene rappresentato come un’entità che si avvita o su sé stessa o attorno alla pietra su cui è dipinto, ruotando in senso antiorario (assumendo come punto di riferimento la punta della pietra vista dal basso). E, a questo punto, qualsiasi archeoastronomo avrà sentito risuonare delle corde familiari, dato che proprio questo è il senso di rotazione della precessione degli equinozi.

Ci incoraggia in questa interpretazione anche la particolare forma della pietra, che in specie nella sua ultima parte ricorda decisamente quella di un cono. In questo modo, può essere facilmente paragonata a un fuso, un oggetto che è servito più volte come metafora mitica del ruotare dell’asse polare (e dunque anche delle stelle polari) attorno a un centro che invece rimane immutato, cui non corrisponde alcuna stella. Mettendo accanto le immagini il paragone, che su un piano astrattamente intellettuale può sembrare assurdo, dal punto di vista visivo risulta infine addirittura ovvio
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L’ipotesi che questa roccia – assieme con Minotauro che vi è dipinto – rappresenti il “fuso” della precessione diventa praticamente obbligatoria nel momento in cui cerchiamo di dare un senso ai leoni e ai rinoceronti che vediamo dipinti sulla sinistra della cripta, che si trova esattamente ad Ovest del Minotauro. Infatti, le figure che vediamo nella foto panoramica sottostante, a ben vedere, non sembrano ritrarre una molteplicità di animali simili, ma invece un solo leone e un solo rinoceronte – rappresentati però in movimento attraverso una sequenza di quelli che oggi chiameremmo senz’altro “fotogrammi”.

6. Proviamo ad analizzare il leone e il rinoceronte sulla sinistra della cripta. La loro traiettoria, se dal punto di vista “naturalistico” appare molto strana, per non dire del tutto assurda, dal punto di vista astronomico appare invece piuttosto familiare. Osservando l’immagine sottostante potremo avere un’idea più chiara di ciò di cui stiamo parlando


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« Risposta #17 il: 01 Maggio 2015, 01:36:48 am »
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Il leone a sinistra della cripta, con un po’ di fantasia, lo si potrebbe interpretare naturalisticamente come un leone mentre rialza quasi timidamente la testa (o viceversa). Invece,  il movimento descritto dal rinoceronte sembra del tutto innaturale, come del tutto innaturale appare anche in molti dei “fotogrammi” la sua postura. Questo rinoceronte – come del resto quasi tutte le altre figure che si possono trovare a  Chauvet e nelle altre grotte del paleolitico – pare galleggiare senza peso e senza punto d’appoggio – quasi come un palloncino delle fiere – in un ambito che non sembra di certo quello ordinario. Per di più, la sequenza delle sue posizioni fa sì che esso paia come “tuffarsi” verso il basso ruotando sulla propria parte posteriore. Per un rinoceronte questa è senz’altro una cosa stranissima, che appare ancora più strana se notiamo che, giunto al punto più basso del suo “tuffo”, l’animale pare cominciare a “riemergere”, proprio come trascinato dalla forza di spinta di un liquido in cui si sia immerso, e non dalle sue gambe (qui viene in mente il Dio biblico nel mentre separa le acque sopra la Terra da quelle sotto la Terra: forse queste acque sono una metafora dello spazio cosmico che si trova sopra e sotto il livello dell’eclittica. Dunque il rinoceronte di Chauvet potrebbe essere un’entità celeste che galleggia nelle acque che si trovano sopra la Terra, come del resto il dio Sole degli Antichi Egizi, raffigurato mentre traversa il cielo su una barca: cioè galleggiandovi sopra).

Ad aumentare la stranezza della rappresentazione, nel secondo “fotogramma” in cui viene rappresentato in questo movimento di “riemersione”, l’animale si volta dalla parte opposta, quasi a sottolineare in questo modo l’inversione di direzione del suo movimento. L’impressione di enigmaticità o addirittura di assurdità che emana da questa pittura comincia ad attenuarsi solo se andiamo a vedere l’arco disegnato tanto dai leoni che dai rinoceronti. Quest’arco è straordinariamente vicino a quei circa 45°-47° di oscillazione apparente che le stelle compiono all’orizzonte nella metà di un ciclo precessionale, cioè in circa 13000 anni

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Qui conviene notare che Hans Georg Bandi, professore emerito all’università di Berna, nel suo articolo dal titolo “Uno straordinario sguardo nella grotta di Chauvet” dice che i felini rappresentati nelle celebri cave francesi (che sono tutti leoni delle caverne, eccetto uno) sono 72: questa è la durata in anni solari di quello che viene tradizionalmente chiamato un Giorno Precessionale, pari a 26000 : 360 = 72,222.  Forse adesso ci sarà qualcuno disposto ad accettare che questo è qualcosa di più di un mero caso, come forse non è nemmeno un caso che i mammut siano 66, proprio come le parti in cui è diviso l’Antico Testamento, né che i cavalli siano proprio 40, che è di nuovo il numero più significativo che compare tanto nel Nuovo che nel Vecchio Testamento.

Forse giova ricordare anche un episodio dei Vangeli Apocrifi, raccontato dallo Pseudo Matteo (Seconda Parte, 31), in cui Gesù, passando una strada che da Gerico va verso il fiume Giordano (una strada su cui si diceva si fermasse l’Arca dell’Alleanza), entra in una grotta dove un leonessa nutriva i suoi piccoli. Da quella strada nessuno poteva passare senza correre il rischio di essere assalito. Però Gesù scende nella caverna e gioca coi cuccioli, mentre viene adorato da quelli adulti. Poi, accompagnato da loro, esce alla luce del giorno. Considerando tutte le reminescenze biblico-numerologiche che troviamo a Chauvet, non è escluso che lo Pseudo Matteo conservi tracce di un culto astronomico antichissimo, e che dunque quei leoni che Gesù ammansisce siano proprio quelle divinità stellari che troviamo a Chauvet.

Ma, tornando al nostro argomento principale, vediamo all’interno della cripta attorno alla quale si muovono in modo tanto innaturale queste figure di leone e di rinoceronte, si vede un cavallo, il cui galoppo va in direzione contraria a quel Minotauro che – nella nostra interpretazione – rappresenta il “fuso” disegnato nel cielo dal movimento dell’asse polare intorno a quello dell’eclittica. Lo si intravede nella foto panoramica dell’affresco che abbiamo visto sopra, ma in questa sottostante lo si può vedere ancora meglio

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Dunque, un’ipotesi archeoastronomicamente plausibile è che questo cavallo rappresenti il Sole, che percorre ogni anno lo zodiaco in direzione opposta a quella della precessione. Quest’ipotesi è ulteriormente rafforzata dal fatto che in questa stessa cappella troviamo un dipinto che sembra rappresentare uno stesso cavallo con quattro diversi tipi di mantello. Ed è stato da più parti osservato che ogni mantello potrebbe rappresentare il simbolo di una diversa stagione dell’anno. Possiamo osservare questo dipinto nell’immagine sottostante

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Che il cavallo possa essere un simbolo solare, e dunque del cosmo che muore e rinasce seguendo il ritmo del sole, lo troviamo confermato anche da uno dei testi di saggezza più antichi di cui la tradizione orale ci abbia tramandato il testo, e di cui ben difficilmente qualcuno potrà mai perscrutare la profondità delle origini. Nei primi versi delle Upaniṣad troviamo scritto

La testa del cavallo sacrificale è, invero, l’aurora, il suo occhio è il sole, il suo respiro è il vento, le sue fauci sono il fuoco Vaiśvānara, il corpo del cavallo sacrificale è l’anno. Il suo dorso è il cielo, il suo ventre è l’atmosfera, il suo addome è la terra, i due fianchi sono le direzioni cardinali, i costati sono le direzioni intermedie, le membra sono le stagioni, le giunture sono i mesi e le quindicine, le zampe sono il giorno e la notte, le ossa sono le stelle fisse e le sue carni sono le nuvole. Il cibo semidigerito è la sabbia, le sue vene sono i fiumi, il fegato e i polmoni sono le montagne, i suoi peli sono le erbe e gli alberi. La sua metà anteriore è il sole levante, la metà posteriore è il sole calante; quando apre la bocca saettano i bagliori; quando scuote la testa, rimbomba il tuono; quando orina, piove. Il suo stesso nitrito invero, è la Voce.

Queste parole sono di solito datate a qualche migliaio al massimo di anni fa, ma non è detto che questa ipotesi corrisponda a una verità storica. Noi siamo abituati a vivere in un mondo proiettato verso il futuro, dove la conservazione del passato è una sorta di passione collezionistica riferita a oggetti o pensieri che non hanno più vitalità alcuna (la parola “museo” deriva dal greco μυδειον, “luogo sacro alle Muse”: ma non è chi non veda che i musei sono invece esattamente il contrario di questo, cioè una sorta di cimitero delle Muse). Ma, proprio a causa della mania occidentale per il collezionismo storicista, abbiamo testimonianze ubique di civiltà millenarie dove il passato veniva visto come la sede di una perduta Età dell’Oro, dove ogni mutamento veniva visto come un segno di decadimento, e dove la conservazione della tradizione coincideva con la vita stessa. Civiltà dunque completamente estranee all’idea di un progresso in cui il passato viene continuante superato proiettandosi verso un futuro che nel pensiero ha già superato il presente in cui eppur si vive. Stando così le cose, non è impossibile che questi versi delle Upaniṣad provengano da profondità temporali ancor più antiche di quelle testimoniate dalle pitture di Chauvet.

7. Seguendo questa linea di interpretazione, potremmo ipotizzare che la cripta con il cavallo che corre in senso antiorario, che si trova ad Ovest, rappresenti questo punto cardinale non “oggettivamente”, in quanto entità geografica convenzionale e astratta, ma miticamente in quanto “porta” attraverso cui il sole (e il cosmo tutto, seguendo l’interpretazione upaniṣadica del cavallo in quanto simbolo di un universo in perenne e ciclico mutamento), tramontando, entra nel mondo sotterraneo.

In particolare, il tramonto all’equinozio d’autunno potrebbe esser stato vissuto come una sorta di morte annuale di un sole divinizzato, dato che da quel momento in poi il tempo in cui compare all’orizzonte comincia ad essere minore di quello in cui rimane sotto l’orizzonte (cioè, miticamente parlando, nel mondo sotterraneo). Questo mutamento nell’equilibrio fra il tempo diurno e quello notturno potrebbe esser stato interpretato in modo religioso, come una vittoria – diciamo così – delle forze delle tenebre su quelle della luce. Questa cosmica sconfitta del sole potrebbe esser stata vista come una morte della divinità da esso incarnata, oppure come un principio di quell’agonia che conduce al solstizio d’inverno, un altro momento topico del ciclo solare, in cui si può simbolicamente vedere tanto la morte definitiva del sole quanto il principio della sua resurrezione (oppure la morte del vecchio sole e la nascita di quello nuovo: si pensi che ancora oggi parliamo di un anno vecchio che muore e di uno nuovo che nasce).

In effetti, attorno al momento del solstizio d’inverno il punto di levata del sole – osservato a occhio nudo – sembra rimanere immobile per alcuni giorni, mentre fino a quel momento procedeva verso Sud. Ed è noto che questo momento di stasi apparente è stato interpretato da molte religioni come una temporanea morte del sole, la cui rinascita viene associata al momento in cui l’inversione della direzione del suo punto di levata comincia a rendersi percepibile.

Dopo il solstizio d’inverno, questo punto comincia a spostarsi verso il Nord, l’altezza massima raggiunta durante la sua traiettoria cresce, mentre le giornate cominciano ad allungarsi sempre di più.  L’inversione del ciclo, che è stata interpretata da un numero enorme di culture come un cammino di resurrezione, va avanti fino al momento in cui all’equinozio di primavera la situazione si riequilibra e comincia a ribaltarsi. Da allora in poi, come forse direbbero gli uomini di Chauvet,  il tempo in cui il sole “cavalca” all’orizzonte comincia a diventare maggiore di quello in cui “cavalca” nel mondo sotterraneo, e la luce prepara il suo ciclico trionfo che si verifica nel giorno del solstizio d’estate, in cui il sole si leva nel punto più a Nord e la durata del giorno, come anche l’altezza che raggiunge nel cielo, sono massime.

Seguendo questa linea interpretativa, il tramonto all’equinozio d’autunno, oltre a rappresentare miticamente il momento in cui il sole comincia la sua agonia, sarebbe anche il punto di riferimento che questi uomini hanno preso per misurare le variazioni di posizione  di almeno un paio di costellazioni – che per il momento non sappiamo come identificare – durante il ciclo precessionale. Il bisonte che si “tuffa” e che poi comincia a “riemergere” dovrebbe quindi rappresentare la variazione della posizione in cui certe stelle diventavano visibili al momento in cui il sole tramontava. E, siccome vi è un completo semicerchio di discesa e uno parziale di ascesa, il bisonte di Chauvet dovrebbe rappresentare un periodo di tempo di circa 15000 anni.

L’affresco di Chauvet risulterebbe dunque, seguendo questa linea interpretativa, come una serie di “fotogrammi del cielo”, visto e sentito come uno spazio sacro in cui divinità dall’aspetto animale – durante l’anno solare come nei millenni – oscillano e si muovono in un circolo inverso: durante il ciclo precessionale, le stelle sullo sfondo oscillano in alto e in basso e si spostano in direzione antioraria, così che al tramonto (come all’alba) dell’equinozio di autunno (e anche di quello di primavera), la costellazione che compare sulla cresta luminosa del sole che svanisce (o sorge) all’orizzonte cambia ogni duemiladuecento anni circa. Invece, durante l’anno, il sole si muove attraverso lo zodiaco in direzione oraria, e il segno su cui sorge cambia una volta al mese.

Sulla parete Est della Cappella dei Leoni e dei Rinoceronti, a circa due metri di altezza dal suolo e in un punto situato piuttosto a Nord, vi è una sorta di terrazzo – che nella cartina che abbiamo mostrato sopra viene chiamato Belvedere. Questa sorta di terrazzo è di accesso molto difficile. Eppure vi sono prove che gli antichi esploratori lo abbiano più volte raggiunto passando per una via che richiede un’ottima abilità speleologica. Siccome il terrazzo è situato a circa due metri di altezza, da lì si può contemplare questa scena cosmica da una prospettiva sopraelevata, che potrebbe rappresentare il punto di vista di una divinità di qualche genere. È del tutto probabile che l’essere umano che si è spinto fin lì, probabilmente un sacerdote, si volesse identificare con questa divinità, che però non è chiaro quale possa essere. Tutto quel che possiamo dire è che l’angolo che il Belvedere forma con lo spuntone di roccia su cui è dipinto il Minotauro, sembra piuttosto vicino a quello che la Terra percorre da solstizio a solstizio in relazione all’eclittica, sia durante ogni anno solare, sia nel corso della metà di un ciclo precessionale, quando lo stesso punto dell’orbita intorno al sole si trasforma da equinozio di primavera in equinozio d’autunno (o da solstizio d’inverno in solstizio d’estate). Stante l’abitudine degli antichi di divinizzare le entità celesti, può darsi che il polo dell’eclittica fosse considerato un dio. Forse il maggiore di tutti, dato che è quello che è destinato a non mutare per tutta l’eternità. Di certo c’è solo che è molto, molto difficile pensare che il fatto che ritroviamo questa stessa inclinazione tipica in molte opere celebri dell’Età della Pietra sia il frutto di un mero caso

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Anche in The Snefru Code parte 5 abbiamo visto che allusioni all’asse dell’eclittica si trovano un po’ in tutto il Neolitico. In forma un po’ criptica, si trovano anche in un luogo ove non ci si aspetterebbe affatto di trovarle, ovvero nell’inclinazione del tetto della Camera della Regina, che corrisponde alla sezione aurea dell’angolo descritto dal Polo Terrestre fra solstizio e solstizio (23,5 + 23,5 = 47° : ɸ ≈ 29°). Vedremo poi quanto questo particolare architettonico della Grande Piramide risulterà prezioso per comprendere fino in fondo il significato della Cappella dei Leoni e dei Rinoceronti di Chauvet



Ritroviamo questo stesso angolo tipico in due famosissime dipinti e in un non meno famoso allineamento fra edifici sacri, opere che sono state realizzate in epoca relativamente recente in Occidente. Forse troviamo qui un indizio che l’eredità ermetica dell’Antico Egitto è qualcosa di completamente diverso e di molto più serio che un mito letterario fra i tanti




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« Risposta #18 il: 01 Maggio 2015, 01:45:30 am »
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Parlando dell’eredità ermetica Antico Egizia, sarà forse utile notare di passaggio che il quadrato che ha per lato ħ (la costante di Dirac, ottenuta dividendo la costante di Plank per 2π) ha un’area pari a 1,0545716882 =  1,112121. Se dividiamo per 2 questa cifra arriviamo a 0,55606. Ora, Se interpretiamo numerologicamente questa cifra come una tangente scopriamo che è proprio quella di un angolo pari a  29,076, estremamente simile alla sezione aurea dell’angolo di 47° e dunque all’inclinazione della Camera della Regina. E, fatto ancora più strano, forse nessuno si è mai accorto che si può ricavare la costante di Newton da ħ con la formula G = 6ħ2 = 6,672. Questo significa che la costante G corrisponde alla superficie di un cubo con spigolo pari appunto a ħ: chissà che non sia proprio questo uno dei possibili significati del cubo inteso come uno dei cinque elementi, la terra, che abbiamo visto nella parte di The Snefru Code part 3 dedicata a Platone.

Per fare un altro esempio, se prendiamo un pentagono con perimetro pari a alla costante di Dirac ħ = h/2π vediamo che la sua area è pari (ħ2 x 0,6882 : 2) = 0,382680. Facendo la radice quadrata di questo numero arriviamo a √0,382680 = 0,61860. Questo significa che possiamo ricavare una buona approssimazione di ħ facendo √[(1/ɸ2 : 0,6882) x 2] = 1,053586, un numero che per di più corrisponde in modo quasi perfetto al rapporto fra anno solare e anno delle eclissi, dato che 365,25 : 346,6 = 1,053808. Si tenga anche presente che √0,382680 = 0,61860 corrisponde in modo quasi perfetto all’approssimazione a ɸ che troviamo nella Piramide di Cheope meno 1, dato che 1,61859 – 1 = 0,61859.

Come noto, il pentagono era una figura geometrica che i pitagorici tenevano per sacra e, analizzando minimamente alcune sue caratteristiche (un’analisi più dettagliata la rimandiamo ad un lavoro successivo) ci rendiamo conto che le relazioni che questa figura geometrica è capace di creare fra le costanti scientifiche e quelle geometriche è veramente impressionante.

Per esempio, se prendiamo un pentagono con lato pari a c = 2,9979246, la costante per calcolare la velocità della luce, vediamo che il doppio dell’area di uno dei suoi cinque triangoli è pari a c2 x 0,6882 = 6,1852 ≈ (ɸCheope – 1) x 10 = 0,61859 x 10 = 6,1859 ≈ 1/ɸ x 10 = 6,18033988. Se invece prendiamo un pentagono con lato pari al numero di Eulero “e” il doppio dell’area di uno dei suoi cinque triangoli è pari e2 x 0,6882 = 5,085148 ≈ πCheope x ɸCheope = 5,086996 ≈ πɸ = 5,0832. È quindi del tutto probabile che le misure della Grande Piramide – che come vedremo in The Snefru Code part 7 contengono tanto ɸ che π che “e” – siano state a stabilite a partire da un pentagono con lato pari a “e”.

Anche l’esagono fu una figura importante per Platone e i pitagorici. E se prendiamo un esagono con area pari a G = 6,6727, vediamo che ognuno dei singoli triangoli equilateri che lo compongono ha un’area pari a 1,1121214, vicinissima a ħ2. Il lato è pari a √6,6727.. : 2,5981 = 1,602595, che è pari alla carica elettrica di protone ed elettrone.

Conoscenze matematiche di questo tipo sono sfuggite fino ad oggi tanto alla nostra fisica che alla nostra geometria. Qui troviamo l’indizio che forse abbiamo molto da imparare da persone che fino ad oggi abbiamo giudicato scientificamente molto più arretrate di noi. E questo non potrebbe valere anche per gli uomini di Chauvet? Non può darsi che in un’epoca in cui noi non vediamo altro che selvaggi appena usciti dallo stato animale vi fossero invece conoscenze astronomiche profondissime, che si sono tramandate di generazione in generazione fino alla costruzione delle Piramidi, che a questo sapere hanno trasformato in meravigliose strutture architettoniche?

8. In effetti, ci fa sospettare una cosa di questo genere il fatto che questo degli uomini di Chauvet sarebbe un modo di disegnare il cielo, per così dire, uguale e contrario a quello che in Egitto troveremo molti millenni dopo, dato che i sacerdoti-astronomi Antico Egizi, fin dai tempi più antichi, sembravano osservare e fissare i mutamenti di posizione delle stelle usando come punto di riferimento il momento diametralmente opposto del calendario, vale a dire l’alba dell’equinozio di primavera.

Da quel che si può capire dal mito e dall’orientamento astronomico del Circolo Megalitico di Nabta Playa, questo punto del ciclo solare era religiosamente vissuto come il momento in cui Osiride – identificato con la costellazione di Orione – e il suo figlio Horus – identificato probabilmente con il Sole – risorgevano, o, per meglio dire, cominciavano un ciclo di resurrezione parallelo. Da un punto di osservazione come quello di Nabta Playa, al tempo in cui il circolo fu costruito (probabilmente in una data attorno al 6000-7000 AC) Osiride-Orione riappariva ad Est in una posizione distesa, tipica dei defunti (la data a cui si riferisce la levata eliacale di Orione all’equinozio di primavera in questa immagine è situata da Brophy al 5820 AC)



Questo riapparire della divinità-costellazione veniva visto come il momento in cui la sorella-sposa Iside – identificata con Sirio – comincia a prendersi cura di lui, ridonandogli la vita. Infatti, la sparizione di Osiride-Orione dall’orizzonte per circa due mesi veniva miticamente interpretata come una morte ciclica della divinità, che ogni anno veniva uccisa dal fratello Seth – una divinità associata alle forze del Caos – e gettata dentro un sarcofago nel Nilo. È probabile che Seth fosse allora identificato con il Toro, dato che nel periodo in cui Orione spariva questa costellazione rimaneva sopra l’orizzonte, come si può arguire anche dall’immagine che abbiamo visto sopra. In effetti nella Pietra di Narmer vi è una scena, rappresentata sotto un simbolo chiaramente equinoziale (i due serpenti identici che si fronteggiano, proprio come i due opposti equinozi, formando un cerchio che potrebbe essere un simbolo solare) in cui il Toro pare calpestare un nemico che potrebbe essere proprio Osiride-Orione, che al momento dell’equinozio ha una posizione chiaramente soccombente rispetto al Toro





I circa due mesi in cui Osiride-Orione svaniva dall’orizzonte alla levata eliacale venivano interpretati come il tempo in cui la sorella Iside-Sirio lo cercava,  e quello in cui ricompariva come il momento in cui il suo corpo veniva ritrovato.  A quel punto, con le cure della sorella, la divinità cominciava a riprendere vita, una vita che diventa sempre più intensa e possente col passare dei giorni. Diciamo questo perché il percorso annuale di Osiride-Orione avveniva in modo tale che se intorno all’equinozio di primavera la costellazione appariva più o meno in corrispondenza dell’Est completamente distesa, al contrario, in corrispondenza con la levata eliacale al solstizio d’estate si mostrava a Sud, diciamo così, con tutto un altro genere di atteggiamento.

È un fatto questo che si può rilevare da molte immagini sacre in cui il Faraone, che personifica Osiride, viene rappresentato in piedi e con la mazza levata mentre uccide un nemico. Questo nemico forse si può intendere come quel Seth-Toro che lo aveva ucciso, dato che Seth rappresentava quelle forze del Caos contro cui ogni anno gli dèi, l’uomo e l’universo tutto lottano per poter risorgere e tornare alla vita dopo la morte simbolicamente rappresentata dall’inverno. Nell’immagine sottostante prendiamo come esempio la stele di Snefru del Sinai, ma naturalmente potremmo prenderne infiniti altri. L’associazione estetica, per non dire la chiara rassomiglianza della gestualità del Faraone e di quella del Cristo della Cappella Sistina ci da un nuovo spunto di riflessione quanto alla possibile derivazione di buona parte della nostra arte sacra da quella Antico Egizia, almeno sul piano formale. Alzi la mano chi non riconosce nella rappresentazione della maternità di Iside un archetipo di migliaia e migliaia di rappresentazioni della maternità di Maria

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La data in cui Osiride-Orione al solstizio d’estate si presentava in questa posizione – cioè al massimo dell’altezza nel cielo da un punto di osservazione come Nabta Playa – viene fissata da Brophy attorno al 4900 AC. È da notare che circa 13000 anni prima la divinità-costellazione, in questo stesso momento del ciclo solare, appariva in una posizione diversa, cioè ruotata di quei più o meno 45°-47° di cui abbiamo visto sopra ruotare tanto il rinoceronte che il leone di Chauvet. È anche del tutto notevole il fatto che la disposizione delle pietre che all’interno del Circolo rappresentano la Cintura di Orione quando si trova al massimo e di quelle che rappresentano le Spalle quando si trova al minimo faccia sì che la scala della rappresentazione cresca e diminuisca con il crescere e il diminuire della sua altezza all’orizzonte. Possiamo vedere chiaramente questa situazione nell’immagine sottostante, dove la medesima costellazione è rappresentata in questi opposti momenti come un gigante al suo massimo e quasi come un nano al suo minimo

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Non sarà sfuggito a nessuno che anche il rinoceronte di Chauvet, via via che cala di altezza, in qualche modo diminuisce, anche se non globalmente: a diminuire sono le dimensioni del suo corno, che giunto al minimo della rotazione addirittura scompare assieme alla testa. È un po’ la stessa cosa che accade al leone. Nei “fotogrammi” più in basso vediamo che viene accennato solo il profilo della schiena e poi, quando compare la testa, vediamo che la sua espressione è timida e con le orecchie basse. Il profilo più in alto lo rappresenta invece con le orecchie in posizione naturale, e l’espressione pare farsi aggressiva, quasi feroce. Non è più impaurita e sottomessa come nei “fotogrammi” in cui questa ancora ignota costellazione viene rappresentata in un punto più basso del cielo.

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9. Ora, se da Chauvet ci spostiamo a Giza, sembra del tutto chiaro che la struttura mitico-astronomica rappresentata dalla Camera della Regina abbia una parentela abbastanza stretta con quella della Cappella dei Leoni e dei Rinoceronti, e addirittura strettissima con quella rappresentata a Nabta Playa. Sulla parete Est vi è infatti una misteriosa cripta, che dovrebbe avere dunque un significato opposto a quella di Chauvet, che si trova ad Ovest. La possiamo vedere nell’immagine sottostante





Mentre a Chauvet il cavallo rappresentato dentro la cripta dovrebbe essere il sole che, dopo il tramonto dell’equinozio di autunno comincia a cavalcare nel mondo sotterraneo, al contrario, la cripta della Camera della Regina dovrebbe rappresentare la porta attraverso la quale Osiride-Orione (e dunque anche suo Figlio, il Sole-Horus) “riemerge all’orizzonte” più o meno in corrispondenza con la levata eliacale all’equinozio di primavera. Oppure, siccome Seth aveva gettato il cadavere del fratello nel Nilo chiuso in un sarcofago, possiamo immaginare che la cripta nella Camera della Regina rappresenti il punto della levata del sole all’equinozio di primavera (cioè l’Est) come il sarcofago in cui Iside ritrova il cadavere del fratello-sposo (infatti la cripta della Camera della Regina ha una forma che potrebbe ricordare quella di un sarcofago).

Questa interpretazione è rafforzata filologicamente dall’origine del nome del dio della morte e resurrezione greco, Dioniso. Erodoto ci dice che il culto fallico di questa divinità è giunto ai Greci dall’Egitto. Giovanni Semerano ricostruisce in questo modo l’origine del nome greco

 

“La prima componente, miceneo diwo-, Διο-  etc. è calcata su accadico di’u nel senso di santuario, sancta sanctorum, cripta, cella, che assume ovviamente il significato di divinità, di nume che vi abita; (..) Per la seconda componente -νιδοδva ricordato che, con intuizione, Nisa, dove il dio neonato era stato affidato alle ninfe da Ermes, fu sempre concepita come un luogo di favolosa fertilità, ricco di boschi, di sorgenti, di freschi ruscelli. E tutto questo dice il nome Ninfa, che corrisponde ad accadico nusha, nushu (fertilità, abbondanza).”

Giovanni Semerano, Le origini della cultura europea, vol. I, pp.202-203

Una possibile traduzione del nome “Dioniso” potrebbe essere dunque “cripta della fertilità”.  E quella che è stata collocata nella parete a Est della Camera della Regina potrebbe essere proprio la direzione della levata eliaca all’equinozio di primavera (cioè l’Est) in quanto “cripta della fertilità”, o della rinascita, dato che il rinascere di Osiride-Orione veniva inteso come un ritornare alla vita e della vita.

Si tenga presente che il nome del celeberrimo dio greco inizia con una Δ, che è la quarta lettera dell’alfabeto greco, corrispondente alla nostra “D”. Pare assodato che l’alfabeto greco sia stato derivato da quello dei Fenici, un popolo che, per ovvie motivazioni geografiche, ebbe dei contatti con gli Israeliti. Nell’antico alfabeto fenicio, come vediamo nello schema sottostante, la quarta lettera dell’alfabeto ha il significato di “porta” (door), proprio come accade nell’alfabeto ebraico


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« Risposta #19 il: 01 Maggio 2015, 01:56:47 am »
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Ma, come noto, nell’antico linguaggio ebraico la lettera corrispondente alla nostra “D” – Daleth – ha anche un valore numerico, che è il 4. Ora, che il numero 4 venga associato al significato di “porta” rende possibile immaginare che questa lettera – l’equivalente ebraico del Δ greco – si riferisca ai quattro punti cardinali, intesi appunto come porte. Per esempio, l’Est potrebbe essere stato inteso come la porta della fertilità, la porta da cui la vita ritorna trionfante assieme al Sole, il Nord come la porta dell’eternità, perché vi sono le stelle che non tramontano mai, l’Ovest come la porta dell’oltretomba, perché lì i corpi celesti vanno a tramontare.

Dunque, mentre i sacerdoti astronomi Antico Egizi erano interessati tanto a Giza che a Nabta Playa a fissare il momento della rinascita del Sole-Horus e di Osiride-Orione, nella End Chamber i loro antenati si erano preoccupati di fissare quel che avveniva nel momento opposto del ciclo solare, al tramonto dell’equinozio d’autunno.

Ma vi è anche un’altra radicale differenza nel pensiero astronomico-religioso che sembra manifestarsi fra gli uomini che dipinsero la Cappella dei Leoni e dei Rinoceronti a Chauvet e quelli che costruirono a Giza la Grande Piramide e dentro di essa la Camera della Regina. Infatti, gli uomini di Chauvet non costruirono uno spazio architettonico (e dunque artificiale) per rappresentare per mezzo di esso il cielo e dipingervi l’immagine delle loro divinità stellari. Al contrario, essi si gettarono nella rischiosissima esplorazione di cave come quella di Chauvet per trovare un ambito la cui struttura – senza alcun bisogno dell’intervento umano – si offrisse naturalmente e spontaneamente come simbolo della struttura del mondo celeste. Se il motto degli Antichi Egizi fu “così in cielo così in terra”, quello degli uomini di Chauvet dovette essere: “così nel mondo celeste, così in quello sotterraneo”.

In effetti, una cappella come quella di Chauvet ci mostra che lo scopo dell’esplorazione delle cave sembra proprio quello di cercare nel mondo sotterraneo un’immagine di quel mondo celeste che potevano contemplare stando sopra la terra. In  questo senso, la vicenda umana e religiosa di Chauvet sembra straordinariamente simile a quella di Altamira ed è probabilmente comune a tutto il Paleolitico. Infatti ad Altamira, proprio come a Chauvet, la celebre immagine di un bisonte che sembra raggomitolarsi su sé stesso (in  modo diverso eppure molto simile al Minotauro della End Chamber) non è stata disegnata in un punto qualsiasi, ma invece su una protuberanza di roccia che suggeriva quella forma che poi di fatto vi venne dipinta, come possiamo ben vedere nelle immagini sottostanti. Di nuovo, troviamo che questa forma sembra un’immagine del movimento della precessione.
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Il bisonte che si arrotola su sé stesso, proprio come il Minotauro di Chauvet, sembra un’immagine del cielo del Nord che ruota attorno a un punto che si trova all’interno del cerchio tracciato dalla precessione, su cui si trovano le tre stelle polari. Quest’ipotesi, all’apparenza molto arrischiata, viene legittimata dal fatto che, come si vede nel disegno sopra a sinistra, se andiamo a poggiare il profilo di questo strano bisonte sul cielo del nord noi vediamo che esso va a coincidere con più di venti stelle. Esso pare dunque una mappa del cielo in un certo momento del ciclo precessionale tracciata in modo tale che mito e astronomia coincidano perfettamente.

10. Fra l’altro, che la costellazione del Drago sia stata immaginata dagli uomini di Altamira come un bisonte – cioè come un animale con le corna – potrebbe essere un fatto molto importante anche perché sembra creare un legame fra quella che potremmo chiamare la loro immaginazione gestaltica con quella di uomini di molti millenni successivi, addirittura quelli del presente, dato che il Drago viene rappresentato ancora oggi con le corna. Questo ci ricorda che anche la testa del Minotauro che si avvita sulla stalattite di Chauvet è un essere cornuto. Dunque, è facile che anch’esso rappresenti la costellazione del Drago che nei millenni si avvita interminabilmente su sé stessa.

Se una cosa di questo genere dal punto di vista dell’uomo moderno sembra assurda, forse all’uomo del Paleolitico non desterebbe molto stupore, anche se fra Chauvet e Altamira corrono oltre 15000 anni di distanza. Il fatto è che qui, molto probabilmente, stiamo parlando di culture in cui la tradizione e il passato vengono valutati in altissimo grado, e che perciò la pensano in modo diametralmente opposto noi quanto al significato del tempo.

Per fare un esempio che è ancora a noi piuttosto vicino, si pensi a come i Dogon sono stati capaci di conservare per migliaia di anni tratti profondi della scrittura e della religione stellare Antico Egizia. Tanto il cielo e i suoi cicli sono importanti per loro che sono andati ad abitare una zona dell’Africa arida, dove la vita è particolarmente difficile, solo perché da lì certe osservazioni astronomiche sono più facili (dato quanto ci è dato di sapere dell’antichità preistorica, non è escluso che la migrazione di Abramo verso la Cananea sia stata motivata dall’inseguire, diciamo così, una certa figura del cielo – che poi verrà chiamata “la Gerusalemme Celeste” – che forse a Babilonia era impossibile osservare, oppure era andata perduta con il mutare del cielo nei millenni).

Al contrario, in una cultura come la nostra, dove il tempo viene pensato come progresso, tanto il passato che il presente sono radicalmente svalutati in relazione al futuro. Ma in culture dove nel passato si colloca un’Età dell’Oro, e dunque una perfezione perduta, tanto il presente che il futuro vengono svalutati rispetto al passato, che dunque viene conservato in vita con la stessa passione con cui noi lo seppelliamo nei musei (oppure ne facciamo in vario modo mercato, ridonandogli una vita artificiale inserendolo  nel vorticoso giro del denaro e del prodotto interno lordo, che pare l’unico simbolo capace di interessare profondamente l’Occidente moderno). È del tutto chiaro che per una cultura come quella Antico Egizia (e presumibilmente anche per quelle di Chauvet, Altamira, come per tutto il Paleolitico) la conservazione della tradizione era lo scopo stesso della vita, quanto il continuo mutamento lo è per la nostra. Per queste genti diecimila anni di immobilità culturale erano diecimila anni di vita, come per noi dieci minuti senza un telegiornale che annuncia una qualche sconvolgente novità sono dieci minuti di morte.

Come secondo spunto di riflessione, possiamo aggiungere che è difficile non notare che la “testa” della costellazione del Drago è piuttosto simile a quella della costellazione che venne in tempi successivi identificata con il Toro. Questo è un fatto che sembra alludere a una comune inclinazione dell’immaginazione gestaltica degli esseri umani, e dunque potrebbe essere il sintomo che caratteristiche simili di costellazioni diverse venivano interpretate allo stesso modo (in questo caso, la similitudine delle due “teste” ha dato luogo all’immagine di due esseri cornuti).
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La somiglianza fra le due “teste” può aver spinto gli esseri umani ad associare in modo intimo due costellazioni che hanno una posizione molto diversa nel cielo e dunque anche delle vicende precessionali diverse. Infatti, il Drago è una costellazione che, siccome si trova all’estremo Nord del cielo, ruota su sé stessa e non cambia mai di molto la sua posizione e la sua altezza rispetto alle altre costellazioni. Le sue stelle sono perciò tutte “imperiture”, che è il modo con cui gli Antichi Egizi definivano le stelle che non tramontano mai. Invece – per esempio da un punto di osservazione come Nabta Playa – il Toro è destinato a stare sopra o sotto Orione, e quindi a trionfare o a morire simbolicamente nella lotta con la costellazione precessionalmente rivale.

Non è perciò impossibile che la lunga tradizione iconografica e religiosa che ha visto nel Drago un bisonte, cioè una figura simile a quella di un toro, abbia avuto un eco nel pensiero teologico-astronomico Antico Egizio, e abbia potuto spingere i sacerdoti-astronomi Antichi Egizi a vedere in quello che per noi è il gran Gran Carro – una costellazione che si trova piuttosto vicina al Drago – una figura che chiamavano la Coscia del Toro, che doveva avere una grande importanza a livello religioso.

Era infatti uso degli Antichi Egizi di sacrificare i tori dopo averli privati della zampa anteriore sinistra, e sembra chiaro che questo modo di procedere pare alludere a una castrazione del Toro in quanto costellazione divinizzata (dunque la Coscia del Toro potrebbe essere il simbolo stellare dei testicoli che Seth perde nella sua battaglia con Horus).  Nel momento in cui nel cielo del Duat Orione uccideva il Toro (cioè lo dominava all’orizzonte) veniva colpita anche la sua Coscia, cioè anche la divinità-costellazione del Nord, che forse veniva intesa come un suo alter ego immortale (e quindi come un alter ego di Seth).

È quanto si può arguire dallo zodiaco di Semnut, dove una divinità con la testa di Falco (probabilmente molto vicina a Orione-Horus, e forse associata con la costellazione del Cigno, come nella mitologia celtica Lohengrin, il figlio di Perceval, che viaggia su una barca trascinata da un cigno) sembra colpire con la sua lancia la Coscia del Toro che però, come si è detto, è posizionato nel cielo del Nord (e si noti come l’inclinazione della lancia rispetto alla verticale del disegno sia più o meno quella dell’asse polare della terra rispetto a quello dell’eclittica)





Questo antico zodiaco ci da anche la possibilità di comprendere il senso di quel celebre mito celtico a cui abbiamo or ora accennato, che è diventato molto importante per l’Occidente moderno: stiamo ovviamente parlando del mito del Re Pescatore. Come è noto, quando Perceval arriva al Castello sul Lago (e qui con la parola “lago” non si deve intendere affatto un lago terrestre situato qui o là, ma il piano dell’eclittica al di là delle 12 costellazioni dello Zodiaco) viene a sapere che il Re Pescatore, padrone del castello, soffre a causa di una ferita alla coscia che non si può curare: e questa ferita gli è stata inferta da un colpo di lancia. Come non vedere nel mito celtico una versione un po’ diversa del mito stellare Antico Egizio? Che dubbi possiamo più avere sul fatto che il Castello del Re Pescatore non è altro che l’ambito cosmico che si trova entro le 12 costellazioni dello zodiaco, cioè la Terra e il sistema solare?

In tutto il mondo sono sparsi miti che raccontano di divinità – molto spesso in forma di serpente – che sprofondano in un lago, la cui versione più celebre in Occidente è senz’altro quella del cosiddetto “Mostro di Loch Ness”: qui sembra chiaro che tali divinità non sono altro che corpi celesti che sprofondano sotto la superficie di un “lago” che è la mitizzazione (nel senso di una rappresentazione figurata) del piano dell’eclittica.

11. Tutto questo insieme di considerazioni ci spinge a pensare che l’astronomia come parte essenziale della teologia sia una forma di pensiero antichissima, iniziata un numero imprecisato di decine di migliaia di anni fa e che è proseguita più o meno ininterrottamente fino all’avvento della cultura pagana, che ha radicalmente umanizzato le divinità stellari. La cultura Greco Classica sembra infatti un momento in cui questa tradizione religiosa viene abbandonata e rapidamente dimenticata. Il bisogno di affermare divinità vicine, terrestri ed umane, è talmente forte che si arriva al punto che in epoca periclea gli osservatori astronomici vengono proibiti. Il qui e ora, l’eterno presente e lo spazio “vicino” della visione del mondo pagana non arriva a tollerare che prosegua neppure per scopi meramente scientifici una tradizione di osservazione del cielo che, con ogni evidenza, in origine era legata essenzialmente a esigenze di tipo religioso.

Al termine di questa indagine scopriamo che, seguendo il filo conduttore dell’archeoastronomia, uno degli enigmi più inquietanti che pesano sui lasciti iconografici che ci vengono dal Paleolitico si scioglie quasi da sé. Gli uomini di Chauvet e di Altamira – che mostrano un’arte pittorica in certi casi talmente mirabile da rendere assolutamente necessaria l’ipotesi che in quelle culture la pittura fosse un’istituzione dotata di scuole, maestri, allievi e tutto quanto compete a una tradizione di arte sacra altrettanto seria che quella cristiana o buddista – non si gettarono nelle viscere della terra per tracciarvi più  o meno a caso delle forme di animali più o meno insignificanti. Al contrario, queste persone facevano parte di una casta di sacerdoti-astronomi che andavano sottoterra a cercare delle cripte ove si potesse gestalticamente ri-conoscere un’immagine del cielo. Il compito che essi si attribuivano era quello di proseguire l’opera divina tracciandovi quei segni con cui quest’immagine veniva resa umanamente intelligibile, e poi mutata con il mutare del cielo nei millenni. Se andiamo a Les Trois Freres troviamo un affresco che fino ad adesso è apparso completamente enigmatico, dato che è composto di figure che si sovrappongono in modo apparentemente caotico l’una sull’altra





Ma se interpretiamo astronomicamente questa immagine ecco che possiamo vedere in essa la registrazione dei mutamenti di una zona del cielo, in cui nei millenni diverse costellazioni, ovvero diverse divinità stellari, occupano il posto che prima era stata quello di un’altra.

Lo scopo teologico di questa esplorazione delle viscere della terra sembra quello di una ricerca di ciò che noi chiameremmo “la vita dopo la morte” e che forse queste genti chiamavano “la vita dopo il tramonto”, oppure “il mondo di là dall’ovest”, che forse era immaginato come il luogo ove si custodiva il segreto dell’eternità, intesa come un interminabile ritorno del ciclo della vita. Se il mondo sotto la terra, dove ogni giorno va a svanire il sole, contiene un’immagine, quasi uno stampo (o un “progetto”) di quello celeste, al punto che possiamo trovare in esso le sue forme (sia pure solo accennate) ecco che questo mondo sotterraneo è quello in cui si prepara – ad ogni anno solare e precessionale – l’alba della rigenerazione dell’universo e dell’uomo che lo abita. Esso non è dunque da pensarsi come il luogo in cui le cose si annientano, ma quello in cui si rigenerano e si preparano così al loro eterno ritorno.

La nostra indagine su Chauvet ci da anche la possibilità di chiarire il significato dei rilievi che si trovano in un sito come Gobekli Tepe. A Gobekli Tepe troviamo infatti dei pannelli posti in serie, che rappresentano animali con caratteristiche molto simili a quelli di Chauvet e delle altre grotte paleolitiche, in particolare, gli animali sembrano galleggiare in qualche sorta di liquido piuttosto che stare appoggiati sul terreno (per quanto possa sembrare strano, questa è la stessa impressione che si può ricavare dalla contemplazione di molte delle figure del Giudizio Universale di Michelangelo Buonarroti, che col loro moto ascendente-discendente sembrano una per quanto lontana derivazione dell’osservazione dell’oscillazione precessionale dei corpi celesti, oppure del loro comparire/scomparire sotto l’orizzonte, interpretato come superficie di un lago, o ingresso/uscita dal mondo sotterraneo). A partire da quanto abbiamo visto adesso, sembra chiaro che questi pannelli a “T” non siano altro che una rappresentazione mitologica di scene celesti in momenti cruciali dell’anno (come la levata eliaca all’equinozio di primavera o al tramonto di quello di autunno, oppure ai due opposti solstizi) che durante il ciclo precessionale mutano lentamente ma inesorabilmente. Li possiamo vedere nelle foto sottostanti
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A Chauvet troviamo che si è costruita una simile successione, appoggiandosi però alla configurazione naturale della grotta. Mettendo vicine le due strutture siamo capaci di renderci conto piuttosto facilmente tanto delle differenze che delle somiglianze



È possibile che si sia scelta la forma a “T” per questi pannelli perché il pilone che fa da sostegno rappresenta probabilmente l’asse dell’eclittica, che nelle visioni mitiche dell’antichità è stato più volte rappresentato come il pilone, o la colonna portante che sorregge il cielo. Forme di questo genere sono comuni anche nel Sud America Precolombiano
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Forse in questo contesto è utile ricordare che l’asse dell’eclittica è stato spesso immaginato nell’antichità come un albero, e che la Croce di Cristo è stata a sua volta molto spesso paragonata a un albero. Dunque l’eredità della religione astronomica non è stata completamente cancellata dall’avvento del cristianesimo, dato che possiamo vedere nella serie di pannelli a forma di “T” di Gobekli Tepe una serie di croci a forma di “T”, a tutt’oggi molto diffuse fra i cristiani e comunemente indossate da chi predilige lo stile francescano.

Tenendo in considerazione queste riflessioni, possiamo ipotizzare che i due Alberi sacri che troviamo nell’Eden raccontato dalla Genesi – l’Albero della Vita e l’Albero della Conoscenza – potrebbero essere l’asse dell’eclittica e quello terrestre sacralizzati. L’Albero della Vita dovrebbe essere l’asse dell’eclittica, perché con la sua perenne immobilità si presta bene a simbolizzare la vita eterna. Invece, l’asse polare terrestre potrebbe rappresentare l’Albero della Conoscenza, perché, a quel che ci è dato sapere, l’astronomia è stata a fondamento della conoscenza scientifica non solo nell’era moderna (come è noto, la teoria gravitazionale di Newton è stata alla base di tutti gli sviluppi della nostra scienza) ma anche nel passato profondo dell’umanità, seguendo la dottrina che Platone espone nel Timeo.

Il polo dell’eclittica e quello polare sono stati immaginati anche come dei vortici, o come gorghi marini. E, dopo il peccato originale, Dio pone due angeli con spade di fuoco vorticanti davanti alle porte dell’Eden, perché Adamo ed Eva non possano rientrarvi mai più. In questo caso, possiamo immaginare che i cicli cosmici connessi al ruotare dell’asse dell’eclittica e di quello polare, siccome rappresentano il trascorrere del tempo, rappresentano anche la condanna di Adamo e Eva a essere nella storia, e dunque consegnati al lavorare con sudore e al partorire con dolore, per sempre esclusi dalla pace eterna che è attributo dell’immobilità divina.


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« Risposta #20 il: 01 Maggio 2015, 02:01:56 am »
Parte 7: Il Codice Snefru - Ipotesi di interpretazione della Stele di Snefru

La Scienza prima della Scienza: le sue tracce e i suoi possibili fondamenti teologico-astronomici nel mondo preistorico a partire dalla scoperta di un Codice Aureo dello Spazio-Tempo nella Grande Piramide e nelle Steli Antico Egizie


1Parte: La teoria della Relatività nello spazio architettonico e figurativo Antico Egizio



Continua...

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« Risposta #21 il: 01 Maggio 2015, 12:33:05 pm »
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1) Prima di entrare del vivo delle nostre argomentazioni, è utile e forse anche doveroso premettere una breve sintesi del risultati che abbiamo raggiunto nel corso di questa ricerca intorno al significato profondo dell’arte e dell’architettura sacra Antico Egizia, ricerca che abbiamo battezzato “The Snefru Code” non perché il codice oggetto della nostra indagine riguardasse esclusivamente il pur celebre Faraone Snefru, ma perché, del tutto incidentalmente, la prima stele oggetto dell’analisi è stata quella a lui attribuita, rinvenuta in una cava di pietra del Sinai, che adesso si trova al Museo Egizio del Cairo. Facendo ricerche sulla geometria delle Piramidi in connessione con quella dei geroglifici e delle steli, ci siamo trovati di fronte a quel che possiamo definire uno stranissimo genere di scoperta archeologica, i cui contenuti sono apparsi fin da principio veramente straordinari. Nelle prime tre parti di questo lavoro (corrispondenti nel sito a The Snefru Code part. 1, 2, 3) in base a prove geometrico-visive che nel loro insieme paiono davvero difficilmente questionabili, avevamo dapprima posto il problema e poi scoperto l’effettiva esistenza di un codice geometrico – derivato da una versione “aurea” dello spazio tempo – che sembra stare a fondamento delle proporzioni e del disegno di tutta l’arte e l’architettura sacra Antico Egizie. Per dimostrare questa tesi abbiamo presentato molte immagini di diverso tipo, che il lettore potrà trovare facilmente scorrendo gli articoli precedenti oppure, diciamo così, scartabellando un po’ fra le due gallery. In tali immagini si mostravano un gran numero di fenomeni geometrici, straordinariamente complessi e a volte anche esteticamente molto pregevoli, che si possono ricavare dal disegno figurativo e architettonico Antico Egizio. Tutto quel che si è dovuto fare è stato sovrapporre le diverse forme appoggiandosi a dei punti di riferimento che per diverse ragioni si potevano immaginare come geometricamente e/o simbolicamente significativi. Uno di questi punti, per esempio, è stato l’occhio del Faraone, perché tutti sappiamo che il Faraone era creduto l’avatar umano di Horus, e uno dei simboli più importanti di questa divinità era proprio l’occhio, inteso a quanto sembra come una trasfigurazione del disco solare. Nella prima delle immagini sottostanti, seguita da altre che il lettore potrà analizzare senza bisogno di ulteriore commento, possiamo vedere uno dei giochi geometrici più complessi che abbiamo ricavato dall’arte sacra Antico Egizia: la Grande Piramide con la cuspide poggiata sull’occhio di Snefru, a sua volta appoggiato sul punto di intersezione fra l’ala e il dorso del Falco della stele nota con il nome di Djoser Running. Facendo in questo modo il profilo della Piramide traversa anche l’occhio del personaggio che Snefru si appresta a colpire mentre la proiezione del pozzo Sud della Camera del Re va a traversare proprio l’occhio di Djoser. Invece, la proiezione del lato Nord del profilo della Piramide va a toccare il centro di quello che sembra una sorta di mirino, di quelli che al tempo si usavano per osservare le stelle, e che più di una volta sono stati rappresentati nell’ambito dell’arte sacra Antico Egizia. Ciò sembra indicare in modo inequivocabile che le parti di queste steli che hanno a che fare con l’occhio umano intrattengano fra di loro un rapporto geometrico particolare, generato attraverso un codice che rende possibile tutto questo straordinario sistema di sovrapposizioni. Per quanto poco consona in relazione a quel che di solito si pensa della cultura matematica Antico Egizia, questa è un’ipotesi che viene spontanea guardando l’immagine sottostante, assieme a un’altra, di tipo astronomico: cioè, che il punto d’intersezione fra l’ala e il dorso del Falco nella stele di Djoser sia la stella di una costellazione (probabilmente Orione) cui si deve guardare con il mirino su cui si trovano appoggiati, come su una specie di barca, un cane e un cobra, che potrebbero essere interpretati a loro volta come entità celesti. Sirio, uno degli avatar astronomici di Iside, è stata spesso definita nell’antichità come la “Stella Cane”: e questo potrebbe significare per esempio che il cane che vediamo sopra il mirino è proprio questa divinità. Un altro avatar astronomico di Iside era la Luna e in The Snefru Code part. 4 abbiamo condotto un’analisi che ci ha portato a considerare proprio il cobra come un simbolo lunare. Dunque questo complesso simbolico potrebbe alludere a certe osservazioni astronomiche che si possono fare tenendo Sirio (e forse anche la Luna) come punto di riferimento. Osservazioni che forse riguardano i mutamenti del cielo durante il ciclo precessionale, dato che i tre uccelli sulla sinistra del rilievo paiono senz’altro un’allusione alle tre stelle polari. Thuban, la stella polare al tempo in cui si pensa che venne scolpito questo rilievo, è la stella che si trova fra Vega e Polaris: e osservando il rilievo si nota che l’uccello che tocca con il becco l’asta su cui è fissato il mirino (asta che potrebbe essere interpretata come l’asse polare) è proprio l’uccello che sta in mezzo agli altri due.

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2) Ma, a parte questo e altri casi particolari, che sembrano anche presi per sé soli molto significativi, tutto l’insieme del lavoro ha dato dei risultati e portato a delle ipotesi che, alla luce della visione per così dire “ufficiale” che abbiamo del mondo Antico Egizio, appaiono senz’altro disorientanti. Solo un codice geometrico comune molto complesso può essere all’origine di fenomeni geometrici come questo, ma quale? Dopo qualche tentativo andato a vuoto, è parso che questo codice coincidesse con quello del diagramma dello spazio-tempo, elaborato da Vincenzo Fappalà e pubblicato su ASTRONOMIA.com, fondato sulla serie di Fibonacci. Appoggiato al centro del rilievo di Ramses e sull’asse centrale della Grande Piramide – all’altezza del punto di uscita dei pozzi di aereazione della Camera del Re – quello che possiamo chiamare il suo “ritmo geometrico” è parso coincidere perfettamente con quello dei manufatti Antico Egizi. È forse bene rinfrescarci un po’ la memoria e osservare di nuovo queste immagini, assieme ad altre che fino ad ora non avevamo mostrato; il tutto costituisce anche una buona sintesi del lavoro finora svolto.

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« Ultima modifica: 01 Maggio 2015, 16:35:14 pm da ∞ ℋℴ℘ℰ ∞ »

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« Risposta #22 il: 01 Maggio 2015, 16:48:50 pm »
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Se il lettore vuole vedere in dettaglio la nostra ipotesi di spiegazione del funzionamento di questo strano genere di spazio spiraliforme può andare a leggere la parte terza di questo lavoro ( The Snefru Code part. 3: “Lo Spazio Aureo nell’Arte Figurativa e nell’Architettura Antico Egizie: un’Ipotesi di Soluzione a partire dalla Struttura dell’Inflorescenza del Girasole”). Qui, per motivi di spazio ci limitiamo a riassumere la proposta di interpretazione che abbiamo dato in quella sede in 6 punti fondamentali:
1- ogni singola parte di ogni forma e figura – iconografica o architettonica che sia – si trova in un rapporto aureo con la totalità di cui è parte e con tutte le altre parti
2- questo accade perché i punti non vengono generati da coordinate ricavate da un sistema di assi cartesiani, ma da un sistema di cerchi e spirali logaritmiche come quello che abbiamo visto nelle immagini sopra
3- per ottenere uno spazio in cui i punti siano fra di loro ravvicinati in modo sufficiente per ottenere immagini complesse, occorre ipotizzare che i punti vengano generati a partire da una molteplicità di poli
4- dunque i poli di espansione di questi vortici di cerchi e spirali logaritmiche devono essere distribuiti in modo tale che in tutto lo spazio si trovi un’equa distribuzione di punti equamente ravvicinati – punti le cui coordinate risultano sempre e comunque dall’incrociarsi di almeno due spirali o da un cerchio e da una spirale
5- dobbiamo però immaginare che nel procedere della suddivisione e dunque del moltiplicarsi dei poli il numero di cerchi e spirali che per ciascun punto si sovrappongono possa crescere in modo anche vertiginoso: la cosa più probabile è che ogni punto di questo strano genere di spazio – che viene spontaneo definire come un vortice di vortici – sia da pensarsi infine come un polo di espansione di cerchi e spirali logaritmiche, e che le linee che vengono tracciate siano a loro volta dei segmenti di cerchi e di logaritmi
6- ciò fa sì che spostando il diagramma in punti diversi della figura generata si ritrovano comunque altri sistemi di rapporti aurei; in particolare, appoggiando un segmento di diagramma a un segmento di linea del disegno ove questi coincidano, si dovrebbe ritrovare il centro da cui il segmento è stato tracciato: dunque anche tutti i punti individuati dalle linee del disegno si trovano in rapporto aureo con gli altri punti, anche se in modo molto complicato
Occorre riconoscere che quest’ultima affermazione non risulta provata dalle immagini che abbiamo visto fino ad adesso, ma altre ne vedremo ben presto in cui si potrà riconoscere in modo (speriamo) abbastanza chiaro il fenomeno in questione.

3)Prima di continuare oltre nella nostra argomentazione è però giusto avvertire il lettore che da più di un secolo è in corso una polemica fra chi attribuisce agli Antichi Egizi una civiltà scientificamente e tecnologicamente molto evoluta (si tratta di egittologi che di solito vengono definiti e si autodefiniscono “indipendenti”) e chi invece pensa si trattasse di un popolo arretrato, magari artisticamente dotato, ma con una matematica di poco superiore a quella che si insegna nelle nostre scuole elementari: si tratta di professionisti che appartengono alla cultura ufficiale, docenti di università pubbliche, esperti di musei o di istituti comunque sia molto importanti. Questi ultimi, di fronte ai fenomeni geometrici che abbiamo visto e alle ipotesi che ne sono scaturite, obbietterebbero che tutto quel che si vede nelle immagini non è altro che frutto di un caso. Si prendano per esempio gli oltre trenta punti di intersezione significativi che si possono facilmente individuare nell’immagine in cui il diagramma dello spazio tempo è stato sovrapposto alla sezione della Grande Piramide: non c’è esperto ortodosso che non dirà che tutto questo non sia l’esito per quanto stupefacente di un bel po’ di accidenti fortuiti, di inesattezze di misurazione o di rappresentazione, e cose del genere. Eppure, se osserviamo attentamente l’immagine vediamo che il codice geometrico sulla base del quale la Grande Piramide fu progettata pare svelarsi, dato che a partire dal diagramma di Fappalà possiamo ricostruire il suo angolo di base, la posizione della Camera del Re e della Regina, l’inizio e la fine della Grande Galleria e la sua inclinazione, il punto di intersezione fra il Corridoio Ascendente e quello Discendente, l’altezza della collinetta di pietra inglobata nella struttura, la posizione e l’inclinazione dei due pozzi della Camera del Re e ancora altri dettagli architettonici della struttura. Tutto questo dovrebbe bastare a escludere che il sistema di “sovrapposizioni significanti” che possiamo individuare fra la Grande Piramide e il diagramma di Fappalà sia il frutto di qualcosa di diverso da ciò che potremmo definire “un progetto intelligente”. Per dare al lettore un’idea chiara e distinta di ciò che significa spiegare con il caso gli effetti geometrici del codice con cui abbiamo a che fare, nelle immagini sottostanti cambiamo la scala della sovrapposizione e spostiamo il diagramma dello spazio-tempo in altri punti più o meno caratteristici della Grande Piramide. Così facendo ci renderemo immediatamente conto che – come abbiamo affermato sopra al punto 6 – il sistema delle sovrapposizioni, lungi dall’aver a che fare con un avvenimento fortuito di qualsiasi genere, si ricrea invece inesorabilmente, proprio come avevano visto accadere nel caso del rilievo di Ramses (il lettore può trovare le immagini in questione nell’appendice fotografica a The Snefru Code part. 4), testimoniando in un modo che pare inequivocabile la presenza di una matrice geometrica da cui il disegno della Piramide è stato derivato.
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4) Queste immagini sono di per sé abbastanza impressionanti. Ma ancor più impressionante risulta quello che scopriamo approfondendo la nostra indagine e avvicinandoci ai dettagli più minuti dell’edificio. Se sovrapponiamo il diagramma dello spazio-tempo alla Camera del Re ci rendiamo conto che anche questa struttura interna importantissima è stata disegnata a partire dalla stessa matrice geometrica con cui sembra esser stato progettato il complesso della Piramide, fino al punto che anche le dimensioni di ogni singola pietra paiono rispondere a un disegno tracciato a partire dal medesimo genere di spazio. E questo non è ancora tutto. Per quanto possa sembrare incredibile, osservando attentamente le immagini sembra di poter dire che perfino quelli che sempre si erano creduti come dei sorprendenti difetti di finitura in un edificio tanto perfetto (il pavimento di tutte le Camere Superiori che risulta a prima vista totalmente grezzo e sconnesso, l’angolo del sarcofago che sembra danneggiato, il contorno del complesso della struttura della Camera del Re che sembra lasciato appunto al caso e i cinque centimetri di dislivello del pavimento che sempre hanno riempito di meraviglia archeologi e architetti, considerando che si tratta di un dettaglio che per altri versi mostra una precisione quasi inumana etc.), risultano anche quelli, diciamo così, deducibili a partire dal sistema di cerchi e spirali logaritmiche elaborato da Vincenzo Fappalà. Tutte le immagini che seguono, ma in particolare le prime due, paiono testimoniarcelo inequivocabilmente

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Davvero si rimane turbati di fronte ai fenomeni a cui ci si trova di fronte, perché sembra del tutto chiaro che uno spazio del genere non possa essere stato progettato, diciamo così, facendo i conti a carta e penna. Già inglobare in un singolo edificio un sistema di allineamenti astronomici come quello che di fatto si riscontra nella Grande Piramide pare di per sé un’impresa straordinaria. Ma a ciò si deve aggiungere il fatto che tali allineamenti sono connessi con la sezione aurea del ciclo precessionale e che vi si arriva utilizzando sempre e comunque gli angoli di Orione. Un insieme di difficoltà che trasforma il progetto in qualcosa che pare quasi inumano (per vedere questi problemi nei dettagli rimandiamo il lettore a The Snefru Code part. 5: “Gli Angoli Sacri di Orione e il Numero d’Oro nell’Architettura della IV Dinastia: alcuni Possibili Sviluppi della Ricostruzione Archeoastronomica di Robert Bauval”). Adesso, dopo aver visto queste immagini, siamo quasi a costretti a concludere che, oltre a tutto questo, un codice tanto complicato come quello dello spazio-tempo venne utilizzato in modo estensivo, fino ai minimi dettagli della struttura. E a questo punto siamo costretti ad aggiungere anche l’ipotesi che il progetto debba aver richiesto qualcosa come un computer, magari di concezione totalmente diversa dai nostri, dato che un compito di questo genere sembra travalicare senz’altro le possibilità di calcolo degli esseri umani, almeno così come li conosciamo oggi, in specie se consideriamo che il sistema delle sovrapposizioni continua a ripetersi anche a livello della Camera della Regina.

« Ultima modifica: 01 Maggio 2015, 16:57:15 pm da ∞ ℋℴ℘ℰ ∞ »

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« Risposta #23 il: 01 Maggio 2015, 17:02:28 pm »
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Dopo aver analizzato con attenzione queste immagini difficilmente si possono ancora conservare dei dubbi quanto a uno degli scopi fondamentali per cui fu costruita la Grande Piramide. Come ci racconta la tradizione coopta, essa rappresentò per i suoi costruttori una sorta di gigantesco libro di pietra, in cui attraverso le misure complessive (ma quasi certamente anche attraverso quelle delle pietre che formano il rivestimento delle strutture interne e di quelle che un tempo formavano il rivestimento esterno del complesso della struttura, distrutto da un terremoto e riutilizzato per costruire Il Cairo), si sono codificati una gran massa di dati scientifici e matematici. Purtroppo però l’indagine è ancora all’inizio e verosimilmente occorreranno decenni per decriptare fino in fondo questo strano manuale che, a tutta prima, sembra trattare di fisica e di astronomia usando il linguaggio dell’alta geometria. Né è detto che anche lunghi o lunghissimi sforzi – fosse pure di tutta la comunità scientifica – potranno mai arrivare a comprendere fino in fondo tutto quello che vi è stato scritto.

5) Ma, dopo tutta questa profusione di matematica e geometria, scienze che nel nostro mondo vengono considerate laiche quasi per definizione, conviene senz’altro sottolineare ancora una volta come tutta questa smisurata impresa intellettuale, artistica e architettonica ebbe un significato sacro profondissimo. Lo testimoniano gli allineamenti astronomici con entità celesti considerate quali dèi e l’inglobamento sistematico nella struttura degli angoli caratteristici di Orione, la costellazione che rappresentava Osiride, la divinità Antico Egizia della morte e della resurrezione che era anche considerata il padre divino del Faraone-Horus. Oltre a questi riferimenti a immagini mitico-astronomiche, nel corso del nostro lavoro abbiamo visto che tanto a Giza come a Nabta Playa compaiono orientamenti caratteristici che, oltre che con le entità celesti in sé e per sé, appaiono evidentemente connessi con il numero d’oro: da ciò abbiamo dedotto che anch’essi debbono avere un profondo significato religioso e proprio come entità matematiche. Diciamo questo perché in The Snefru Code part. 4 abbiamo scoperto che il numero d’oro caratterizza in un modo che pare indubitabile tanto il ciclo annuale che quello precessionale del Sole, non meno che il ciclo di retrogradazione dei nodi della Luna. In quello stesso lavoro abbiamo portato anche indizi molto importanti di come questo ciclo lunare fosse stato rappresentato in un diagramma di orizzonte del tutto simile al nostro, che però nell’ambito di quella cultura serviva a dare forma a uno dei copricapo faraonici più comuni e tipici. Questo ci ha fatto pensare che il numero d’oro (e proprio in quanto entità matematica) fosse visto dagli Antichi Egizi come una parte della mente di Dio, in quanto proporzione nascosta di tutti i cicli fondamentali attraverso i quali la vita viene continuamente generata e rigenerata attraverso un percorso di nascita, morte e resurrezione. A partire da ciò, avevamo notato che la proporzione aurea si può di fatto ritrovare in molti allineamenti caratteristici di circoli megalitici o altri tipi di strutture sacre presenti in tutto il mondo, oltre che in quello che abbiamo analizzato più accuratamente e che è stato alla base di tutta la ricerca, vale a dire il Circolo di Nabta Playa: fra le strutture megalitiche più famose abbiamo indicato quelle del Sud della Gran Bretagna, in particolare Stonehenge e Castlerigg. Successivamente, andando avanti nell’analisi delle strutture della Grande Piramide, ci siamo resi conto di un fatto che pare anch’esso piuttosto notevole, ovvero che il tetto della Camera della Regina ha un’inclinazione che pare coincidere esattamente con il sistema di allineamenti che si diparte dall’Irlanda meridionale in direzione Sud-Est, seguendo un asse che passa attraverso due cattedrali famosissime, Mont Saint Michel e San Michele Arcangelo, spingendosi fino in Palestina: questo allineamento è costituito da strutture relativamente moderne, chiese e cattedrali, connesse appunto con l’Arcangelo San Michele, che avrebbe richiesto la costruzione di tali edifici con apparizioni ed eventi miracolosi. L’inclinazione è pari a circa 29°, un’inclinazione praticamente identica a quella della sezione aurea dell’angolo percorso dalla Terra durante la metà di un ciclo precessionale, che equivale a circa 47°. Si noti anche che la distanza fra il punto di inizio di quest’allineamento e San Michele Arcangelo corrisponde a una buona approssimazione della sezione aurea della sua lunghezza complessiva (circa 1,7 contro 1,618033).

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6) Dunque, pare che per comprendere il significato astronomico e probabilmente anche scientifico degli orientamenti di alcune strutture costruite in Occidente in epoca cristiana dobbiamo volgerci alle rive del Nilo, verso epoche che sprofondano nell’oscurità impenetrabile dei millenni. Attribuire una cosa del genere a una banale coincidenza sembra piuttosto difficile, in specie se consideriamo che da più fonti siamo a conoscenza di contatti avvenuti in epoche diverse fra la cultura Ebraico-Veterotestamentaria, da cui poi sono sorti il Cristianesimo e i costruttori delle cattedrali, e quella Antico Egizia. Avevamo già visto in The Snefru Code part. 6 come tanto il Circolo di Nabta Playa che la Camera della Regina condividessero una struttura archeoastronomica che pare alludere a un ciclo di morte e resurrezione di Osiride, ciclo che presenta alcune caratteristiche somiglianze con quello che alla Pasqua cristiana si celebra in riferimento alla morte e alla resurrezione di Gesù. Pur fra le enormi differenze teologiche che si possono in vario modo riscontrare, in entrambi i casi abbiamo che la resurrezione della divinità è connessa con quella del Sole e dunque anche con quella della vita naturale. A questo possiamo aggiungere adesso che anche la Camera del Re sembra presentare delle indubitabili allusioni a un episodio raccontato dai Vangeli. Quando le pie donne si recano al sepolcro per ungere il corpo del Maestro, nella versione di Matteo si racconta di come al momento del loro arrivo vi fu un gran terremoto, quindi un angelo sopraggiunse e dopo aver scoperchiato il sepolcro annunciò alle donne che Gesù era risorto: esse infatti guardano e vedono che il sepolcro è vuoto. Il modo in cui l’apparizione dell’angelo si verifica ci suggerisce che il sepolcro possa essere rimasto danneggiato, dato che un terremoto è senz’altro in grado di spaccare e di staccare parti di un edificio di pietra: il testo di Matteo lascia anche un po’ di spazio ermeneutico per supporre che il terremoto possa essere stato il modo con cui l’angelo ha rotolato via la pietra che copriva il sepolcro. Ma se ora immaginiamo di entrare nella Camera del Re, ecco che ci troviamo di fronte a un sarcofago che, proprio come nel caso di quello di Gesù, appare scoperchiato, vuoto e danneggiato (pare che fino al secolo diciannovesimo il suo coperchio rotto vi fosse stato lasciato accanto, poi è stato trafugato in circostanze non chiare). La somiglianza di questa “scena sacro-architettonica” con quella Evangelica è tale che spinge a supporre che il suo significato possa essere proprio quello dell’avvenuta resurrezione di Osiride, che vi era stato rinchiuso da Seth (ricordiamo che nel mito Antico Egizio a resuscitare Osiride è la sorella e moglie Iside, che lo resuscita battendo le ali: di fatto in molte rappresentazioni Iside ricorda da vicino la figura di un angelo così come molto spesso rappresentato nella tradizione iconografica cristiana). Si svelerebbe così l’enigma delle cosiddette camere funerarie e dei sarcofaghi che sono stati regolarmente trovati vuoti: seguendo questa linea interpretativa le camere funerarie sarebbero in realtà simboli di resurrezione, e i sarcofaghi vuoti che sono stati ritrovati a più riprese nell’Antico Egitto possono essere senz’altro considerati anche quelli come allegorie della vita eterna cui è destinato Osiride, dato che un sepolcro vuoto può ben rappresentare la vittoria del divino sulla morte. È un’ipotesi questa che si rafforza ulteriormente se teniamo conto di tutto quel che abbiamo scoperto quanto al ciclo annuale di morte e resurrezione di questo dio (in specie per quanto riguarda gli eventi astronomici connessi con l’equinozio e il solstizio a Nabta Playa).

7) Dunque sembra che possiamo individuare nelle Piramidi un archetipo architettonico-astronomico della scena della resurrezione del Cristo, le cui prime origini risalgono probabilmente a decine di migliaia di anni fa, se teniamo conto delle connessioni che in The Snefru Code part. 6 abbiano individuato fra il mito di Osiride e il significato teologico-astronomico della Cappella dei Leoni e dei Rinoceronti di Chauvet. Alla luce di queste considerazioni, il viaggio compiuto dalla Sacra Famiglia verso l’Egitto per proteggere Gesù dalla furia di Erode può acquistare un significato ulteriore rispetto a quello usuale. Questo episodio evangelico potrebbe alludere all’Egitto in quanto terra dove la nascita, la morte e la resurrezione di Gesù sono stati prefigurati in una fede certamente diversa, ma con dei tratti che paiono però sostanzialmente simili a quella che doveva venire (teniamo anche presente che l’idea di Maat ha senz’altro qualcosa a che vedere con quella di Carità).
« Ultima modifica: 01 Maggio 2015, 17:04:52 pm da ∞ ℋℴ℘ℰ ∞ »

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« Risposta #24 il: 01 Maggio 2015, 17:06:29 pm »
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Parte2 : REPERTI ARCHEOLOGICI E PREGIUDIZIO STORIOGRAFICO

1) Non c’è persona minimamente appassionata di cultura che non sappia con quanto rispetto da ogni parte dello scibile umano si guarda oggi alle scienze esatte. Questo rispetto giunge al punto che non c’è ambito del sapere in cui non si tenti di imitare o di utilizzare in qualche modo i metodi quantitativo-matematici, magari anche del tutto a sproposito, pur di acquistare credibilità e prestigio agli occhi di intellettuali di altri rami, o anche solo del pubblico di media cultura che mostra un qualche interesse per la propria materia. Ma, a dispetto di ciò, l’impostazione che è stata data nelle università di tutto il mondo allo studio di culture come quella Antico Egizia è proprio quella cui abbiamo già accennato sopra, ovvero un rifiuto programmatico di testare in modo scientificamente accurato i resti archeologici, ove si eccettuino le datazioni fatte col radiocarbonio. Questo perché si da per inamovibile presupposto di qualsiasi indagine storica che queste civiltà non abbiano nulla a che vedere con matematica e scienze matematizzate, e chi pensi il contrario viene quasi a priori considerato un individuo afflitto da un qualche genere di devianza mentale, magari di quelle lievi, che non impediscono a nessuno di svolgere in campi diversi dall’archeologia una vita del tutto normale. Quindi, forse per non cadere vittime essi stessi di quel placido sarcasmo con cui si è stigmatizzato chiunque si allontanasse dalle ricostruzioni ufficiali, gli archeologi accademici si sono attestati in un modo che pare quasi religioso nella difesa del dogma dell’arretratezza scientifica e tecnologica dell’uomo del Neolitico, considerandolo una sorta di linea del Piave della ragione e del buonsenso. Ove qualcuno utilizzi indagini quantitative per cercare di dimostrare il contrario, magari riuscendoci brillantemente, (l’opera di Christopher Dunn, tanto per fare un esempio, porta prove scientifiche inoppugnabili dell’esistenza di una tecnica e di una matematica di altissimo livello nell’Antico Egitto: e Christopher Dunn è un ricco e affermato ingegnere aerospaziale che nelle sue indagini ha utilizzato il massimo della tecnologia che gli è stato consentito dai responsabili dei siti archeologici e dei musei egiziani, non un maniaco di fine millennio, come si è avuto il coraggio di scrivere), il compito che gli archeologi e dunque anche gli egittologi accademici si sono senz’altro attribuiti è quello di evitare accuratamente di prenderne in considerazione i risultati, oppure di considerarli con noncurante e aprioristica ironia. Ma a questo atteggiamento vi sono a volte delle eccezioni e si trovano persone che invece di limitarsi a stendere quel che dal loro punto di vista non è altro che un velo di pietoso silenzio sulle ricerche altrui (che altri invece definiscono “censura”), si danno invece la pena di organizzare dei contro-esperimenti, destinati a smentire in modo fattivo i risultati raggiunti dagli egittologi indipendenti, considerati senza eccezione come il frutto di un combinato disposto di ingenuità, superficialità, incultura, oltre che, come si è già detto, di disturbi mentali di vario genere pur se lievi. Quello che ci apprestiamo qui ad analizzare è l’esperimento con cui Lehner – uno dei massimi responsabili archeologici del Plateau di Giza – ha tentato di dimostrare che la Sfinge si poteva effettivamente scolpire con i mezzi che l’archeologia ufficiale attribuisce agli Antichi Egizi: il martello di pietra e lo scalpello di rame. Cercheremo di dare al lettore un resoconto breve e distinto di questo esperimento, in primo luogo perché riteniamo importante che chi legge queste pagine abbia un’idea del modo di procedere dell’archeologia ufficiale quando tenta di dimostrare quale fondamento induttivo e pratico-quantitativo abbiano le sue affermazioni teoriche. In secondo luogo, perché ci immaginiamo che di fronte a un’affermazione che suoni “nell’Antico Egitto si lavorava la pietra con martelli di pietra e scalpelli di rame” il lettore anche solo minimamente edotto quanto ai problemi tecnico-scientifici connessi con la lavorazione di materiali duri o durissimi quali il granito rosa, il porfido, la diorite etc. si starà senz’altro domandando: come è che prestazioni tecniche di livello tanto inconcepibilmente elevato si possono attribuire a mezzi così poco efficaci, con cui non sarebbe facile lavorare nemmeno materiali molto più teneri? Per quanto possa sembrare strano, la risposta che danno sistematicamente Lehner e tutti coloro che la pensano più o meno come lui è che questi mezzi sono gli unici che si sono ritrovati, e – soprattutto – gli unici che sono rappresentati nelle immagini sacre Antico Egizie. Un’argomentazione quest’ultima che appare non particolarmente logica: se fra cinquemila anni degli archeologi entrassero in una chiesa del ventesimo secolo e trovassero dei quadri in cui vi sono personaggi vestiti come al tempo in cui visse Gesù, commetterebbero un grave errore nel credere che quello era il modo in cui ci si vestiva al tempo in cui la chiesa fu costruita. In particolare, se vi fosse un quadro in cui si rappresenta la bottega di San Giuseppe, si farebbero un’idea particolarmente sbagliata degli strumenti comunemente utilizzati dai falegnami del ventesimo secolo, perché sarebbero portati a pensare che non avessero a disposizione, per esempio, utensili di acciaio, viti, energia elettrica, illuminazione artificiale, seghe e trapani a motore, colle e vernici ottenute da composti chimici artificiali, rivestimenti in plastica, etc. Fraintendimenti ancora maggiori vi sarebbero ove si intendessero le icone tipiche delle chiese ortodosse come rappresentazioni realistiche, a partire dalle quali si possano fare ipotesi sulla vita quotidiana di chi magari nel trentesimo secolo dopo Cristo le avrà dipinte (ricordiamo che le icone ortodosse si dipingono a tutt’oggi cercando di imitare nel modo più perfetto possibile tanto nei mezzi che nello stile quelle realizzate molti secoli fa: e, per quel che si può capire, la religione Antico Egizia fu ancora più conservatrice di quella ortodossa).

2) Ma, tornando all’esperimento empirico organizzato da Lehner, e dunque alla prova che dovrebbe risultare ultimativa della corrispondenza con i fatti della teoria egittologica ufficiale, come si è già detto, il martello di pietra e lo scalpello di rame si sono testati tentando una replica del famoso “naso mancante” della Sfinge, eseguita però in scala 1/3. Si è iniziato ovviamente dal lavoro di sgrossatura, utilizzando a tal fine i martelli in pietra, come da immagini geroglifiche. La prima difficoltà che si è dovuta affrontare, come del resto era prevedibile, è che con questi strumenti i lavori andavano avanti molto a rilento, tanto che dopo alcuni giorni non si era fatto alcun significativo progresso, e il futuro naso ancora non si distingueva da una pietra scheggiata qualsiasi. Questo allungarsi dei tempi di realizzazione costituiva fra l’altro anche un grave problema per la salute degli operatori perché questo genere di attrezzi vibra in modo molto intenso, così che se usati a lungo possono causare infortuni di vario genere, in particolare gravi infiammazioni articolari. Questo accade perché l’energia cinetica accumulata dalla testa del martello, a causa della sua conformazione e del materiale con cui è costruito, non si scarica se non parzialmente in una frantumazione della pietra, ma si riflette in buona parte in un rimbalzo che il manico troppo sottile non è in grado di ridurre in modo soddisfacente, e che dunque deve essere assorbito nella sua quasi totalità dagli arti dell’operatore (ma questo particolare durante il documentario non è stato fatto notare). Così, dopo aver faticosamente accumulato quelli che parevano non più che poche decine di grammi di polvere e frammenti di calcare si è pensato bene di non proseguire oltre, e che quel che si era fatto bastava e avanzava a dimostrare in modo inoppugnabile che i martelli di pietra dovettero essere stati senz’altro gli strumenti con cui venne realizzato il lavoro di sgrossatura di tutto il gigantesco monumento (ricordiamo al lettore che la Sfinge è lunga circa 50 metri e che il suo corpo è immerso in una specie di piscina lunga circa 70, che prende il nome di Recinto della Sfinge: per ottenerlo si sono dovuti estrarre diverse migliaia di metri cubi di calcare, anche se, a quanto pare, di qualità scarsa e dunque piuttosto tenero). Credendo di aver raggiunto in questo modo la dimostrazione desiderata, per finire l’operazione di sgrossatura si è dunque passati alle più comode e moderne mole diamantate. Lehner non ha spiegato nei dettagli i motivi che lo hanno spinto a questa decisione, anche se dal contesto pare di poter capire che si è dovuto abbandonare il solco del rigore storico non per cattiva volontà o per ingannare sé stessi o il pubblico e cose del genere. Il problema sembrava essere un altro, ovvero che oggi non si hanno a disposizione tempo e manodopera illimitati, come accadeva nell’antichità, e quindi anche un naso in scala 1/3 se realizzato con martelli di pietra verrebbe a costare una cifra che la vendita del documentario e della pubblicità connessa non sarebbero stati in grado di ripagare (un giorno qualcuno ci spiegherà senz’altro da quale testimonianza scritta o di altro genere si possa dedurre che, per esempio, gli autori della Sfinge avessero a disposizione tempo e manodopera illimitati: per ora la catena di eventi che parte dall’ordine di un tiranno onnipotente per arrivare a monumenti di tal genere appare un’ipotesi priva di qualsiasi fondamento storico che però, siccome è in linea con quelle teorie evoluzioniste che vengono tenute per ovvie ancora prima che per vere, viene proiettata sui reperti archeologici senza preoccuparsi troppo se da una tale proiezione il senso di questi reperti venga illuminato oppure invece oscurato).

3) Avendo in questo modo risolto il problema della sgrossatura, si è potuti passare alle operazioni di finitura, cui si è coerentemente provveduto aggiungendo ai martelli di pietra gli scalpelli di rame, anche questi copia fedele di quelli rappresentati nei dipinti e nelle steli. In effetti, il filmato mostrava che il calcare si riusciva a scheggiarlo in qualche modo, ma dopo poco tempo (come c’era da aspettarsi) lo scalpello di rame cominciava a spuntarsi e addirittura a piegarsi, così che molto spesso si doveva mettere in un braciere di carbone (che si pensa che gli Antichi Egizi non avessero) per poterlo forgiare e rimettere a nuovo. Questa operazione è stata condotta con gli antichi martelli di pietra, ma per poter maneggiare gli scalpelli arroventati (porli, rigirarli ed estrarli dal braciere, ruotarli sull’incudine) si è pensato bene di usare delle tenaglie di ferro, anche se l’egittologia ufficiale sostiene che all’epoca delle Piramidi gli Antichi Egizi avessero solo il rame. Lehner non ha spiegato il perché di questa scelta che contraddice in modo molto grave le sue stesse teorie storico-archeologiche, e dunque dobbiamo farlo noi al suo posto. Il fatto è che usando tenaglie di rame l’operazione sarebbe risultata piuttosto difficoltosa, perché il rame trasmette molto facilmente il calore e i manici avrebbero rischiato di arroventarsi in poco tempo, rendendo le tenaglie del tutto inutilizzabili. Inoltre, quando il rame oltrepassa una certa temperatura si deforma con straordinaria facilità: quindi queste eventuali tenaglie di rame, se usate in modo intensivo, avrebbero dovuto essere a loro volta e piuttosto spesso riforgiate, dando luogo a una sorta di regresso ad infinito di tipo pratico, che dal punto di vista energetico è enormemente più dispendioso di quello di tipo teorico. Già prima di iniziare il lavoro il fabbro incaricato di organizzare questo esperimento – un appassionato di antichità anche se non proprio un archeologo “ufficiale” – ha fatto notare a Lehner che procedendo in questo modo per scolpire la Sfinge si sarebbero dovuti consumare una quantità di rame e di legna tali da far impallidire quelle mai consumate in tutto il mondo antico. Inoltre, aggiungiamo noi, si immagini l’ambiente infernale in cui gli scalpellini avrebbero dovuto operare: in Egitto il clima è torrido per la maggior parte dell’anno, e fare un lavoro fisico così impegnativo sotto il sole costituisce già di per sé un compito estenuante anche per uomini forti e assuefatti a condizioni estreme. Ma si immagini di lavorare in un ambiente dove vi sono centinaia di bracieri che ardono tutto il giorno, presumibilmente a non molta distanza da dove ci si doveva dar dentro per ore e ore sotto il sole a quaranta o cinquanta gradi, sommersi dal sudore, dalla polvere e, come si alzasse un po’ di vento, anche dalla sabbia, dalla cenere e dal fumo che esalava tutto intorno. Naturalmente, parliamo di queste centinaia di ipotetici bracieri non perché sia ragionevole credere che siano stati effettivamente usati, ma per avere un’idea di cosa significano sul piano pratico le teorie che con questo esperimento si sono volute mettere alla prova. Infatti alla fine del documentario si è arrivati alla conclusione che a lavorare alla Sfinge vi sarebbero stati 300 operai scalpellini per la durata di 3 anni (numeri che, considerando le dimensioni del monumento, appaiono già ad occhio quasi ridicolmente sottodimensionati: ove corrispondessero a verità non si capisce come è che monumenti del genere non siano stati fatti in tutto il mondo o non si facciano oggi, considerando l’enorme progresso tecnico che si suppone nel frattempo ci sia stato). Ora, questi 300 scalpellini avrebbero dovuto cambiare molto spesso lo scalpello oppure stare fermi: se immaginiamo anche un solo braciere per ogni scalpellino fanno 300 bracieri, con relativi inservienti a darsi da fare a preparare uno scalpello ogni circa cinque-dieci minuti di utilizzo intenso, per fare in modo che il lavoro andasse avanti senza troppe pause.

4) Chiunque abbia assistito a questo esperimento (su cui è stato girato il relativo documentario a cura del National Geographic: “Ancient Secrets: The Sphinx”, che si può facilmente trovare su You Tube) e non fosse del tutto prevenuto si sarebbe reso conto immediatamente che scolpire una statua gigantesca come la Sfinge in quel modo è un’impresa impensabile, non diciamo per 300, ma anche per 300.000 operai quanto si voglia motivati in qualsivoglia periodo di tempo: solo il fuoco dei bracieri per forgiare il rame avrebbe richiesto una quantità di legname tale da ridurre l’Egitto a un deserto nel giro pochi mesi. Si aggiunga che il calcare che circondava il corpo della Sfinge è stato cavato sotto forma di blocchi che arrivano alle 400 tonnellate, che servirono poi per costruire il tempio annesso: ciò non ostante nessuno si è avventurato neppure in un vago accenno di spiegazione quanto al modo con cui dei colossi del genere si siano potuti spostare anche di un solo centimetro (rulli? slitte? leve? queste sono tutte cose che richiedono legno, un materiale che già scarseggiava per i bracieri e dunque anche per le impalcature, per i manici dei martelli, per le barche da trasporto, i remi, i moli, etc.; ma, d’altra parte, si nota che nelle ricostruzioni a tavolino i blocchi si muovono davvero molto facilmente, e addirittura in alcune simulazioni computerizzate sembrano quasi volare da soli al loro posto: su presupposti di questo genere è facile arrivare pensare che gli operai Antico Egizi non dovessero incontrare alcun problema pratico a spostare questi pesi immani, visto che noi nella teoria non ne vediamo o non ne vogliamo vedere nessuno). Si rimane piuttosto sbigottiti e anche un po’ increduli, ma invece è proprio così: è solo ed esclusivamente su esperimenti reali o mentali di questo tipo che di fatto si fonda qualsiasi ricostruzione in stile accademico di civiltà come quella Antico Egizia. Anche da questo solo esempio (ma altri se ne potrebbero fare, a partire dal celebre esperimento NOVA, con cui si tentò di costruire con i supposti mezzi dei costruttori delle Piramidi una mini-piramide alta dieci metri, i cui risultati furono disastrosi e che è valso a Lehner accuse di plagio che paiono fondate) possiamo intendere che quella dell’arretratezza tecnico-scientifica delle culture preistoriche non è affatto una “teoria” (perché le teorie prima o poi si dovrebbero confrontare con la realtà), e nemmeno un’ipotesi di un qualche significato euristico, ma bensì un puro e semplice dogma di fede di tipo storiografico. Nessuno dunque si stupirà se questo dogma viene affermato in modo sempre più rigido e incondizionato via via che ci si allontana dagli inventori della storia, ovvero da quei Greci Classici da cui, per dei motivi non molto chiari, in Occidente si è a tuttora convinti che la nostra civiltà abbia preso le mosse (un giorno qualcuno ci spiegherà senz’altro cosa c’entra, per esempio, l’idea di spazio inteso come tensione verso l’infinito espressa da una cattedrale gotica con quella di equilibrio statico espressa da un tempio greco-classico). E poco importa ai nostri storici che questi stessi Greci Classici, di cui ci si proclama discepoli e discendenti, affermino senza remore che l’Antico Egitto possedeva una cultura enormemente più sviluppata della loro. Se un Platone lo dice sul serio le sue affermazioni ovviamente si prendono per bubbole: i suoi pur celebri dialoghi sono da ogni parte intrisi di miti, favole e metafore, e dunque come si fa a dargli retta su un punto tanto importante delle nostre ricostruzioni storiografiche?

5) Ma, a dispetto della maggior stima che riscuote, fra l’altro anche a causa della sua allergia al mito, anche Aristotele non ottiene dai nostri storici il sia pur minimo ascolto quando con intento che pare sarcastico dice che i sacerdoti egizi usavano la matematica per divertirsi (come è noto nella visione di Aristotele la vera scienza non ha nulla a che fare con la matematica, e del resto di matematica non si trova traccia nemmeno nel lavoro dei cosiddetti “fisici” greci: a ben vedere, il metodo della fisica occidentale, almeno a partire da Galileo, si è sviluppato in diretta contrapposizione alla “τεορία” dei filosofi greci, atomisti compresi; ma questa constatazione ed altre del tutto simili non scoraggiano i sostenitori delle ascendenze greche nella nostra scienza quantitativa e della nostra matematica, luoghi comuni storici non molto più fondati di quello dell’arretratezza tecnologica dell’uomo del Neolitico). Ma, Aristotele e Platone a parte, chiunque sia lo studioso antico che afferma che i Greci Classici hanno importato la loro cultura astronomica e matematica dall’Egitto (o anche dall’oriente tardo Babilonese), nelle nostre università si continua imperterriti a sostenere che la matematica e l’astronomia matematizzata sono una creazione Greco Classica e che nell’Antico Egitto non se ne è saputo quasi nulla fino all’arrivo di Alessandro Magno. Eppure il numero d’oro e il Pi greco vengono fuori dappertutto nelle misure caratteristiche della Grande Piramide, fino al punto che autorevoli professori di matematica e statistica escludono che possa trattarsi di un caso. Addirittura, si è visto che a Nabta Playa vi sono allineamenti megalitici che dimostrano che i costruttori del circolo conoscevano la distanza relativa fra la Terra e alcune stelle di Orione. Questa è a sua volta la prova che nel 7000 a.C. si aveva già un’idea chiara di cosa fosse una stella e della conformazione effettiva del cosmo, dato che la conoscenza di qualcosa come la distanza relativa delle diverse stelle di una singola costellazione esclude di per sé sola che si possa pensare all’universo nei termini di un rigido susseguirsi di sfere. Eppure questi e altri dati oggettivamente riscontrabili non servono a sollevare il minimo dubbio fra gli archeologi accademici: checché ne dica chicchessia, non c’è nemmeno da pensare che nell’Antico Egitto vi fosse qualcosa di anche lontanamente somigliante a una matematica o a un’astronomia matematizzata minimamente evolute, e men che meno a una scienza esatta o a una tecnica che da essa possa esser stata derivata.


Continua...

massy.snake

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« Risposta #25 il: 04 Maggio 2015, 00:30:31 am »
Sono oltremodo impressionato dalle (immagino) tue scritture e riflessioni, confesso di aver perso un po' il bandolo ove la matematica impera, ma seguo con vivo interesse e mi complimento...
Mai pensato di scriverci un libro?

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« Risposta #26 il: 04 Maggio 2015, 01:02:37 am »
Sono oltremodo impressionato dalle (immagino) tue scritture e riflessioni, confesso di aver perso un po' il bandolo ove la matematica impera, ma seguo con vivo interesse e mi complimento...
Mai pensato di scriverci un libro?


Non è mio, è troppo complesso...una persona che conosco mi ha informato di aver trovato questo scritto e me lo sta passando...devo chiedergli chi è stato perchè secondo me merita...ci avrà perso mezza vita secondo me per fare una cosa simile...

Ding0

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« Risposta #27 il: 04 Maggio 2015, 10:40:31 am »
Non è mio, è troppo complesso...una persona che conosco mi ha informato di aver trovato questo scritto e me lo sta passando...devo chiedergli chi è stato perchè secondo me merita...ci avrà perso mezza vita secondo me per fare una cosa simile...

Te lo stà passando?Si trova in rete se vuoi evitare di aspettare...

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« Risposta #28 il: 04 Maggio 2015, 22:04:24 pm »
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Parte3: Tracce di una scienza prima della scienza nelle misure della Grande Piramide e di altri manufatti Antico Egizi


1) Quelli che abbiamo esposto sono dunque i metodi e le concezioni che nell’ambito della nostra storiografia e archeologia ufficiali si adottano quali inquestionabili strumenti di conoscenza di tutto il nostro passato preistorico (e dunque non solo degli Antichi Egizi). Ma, come il lettore avrà già capito, è del tutto ovvio che questi metodi e queste concezioni non sono affatto gli unici possibili e, in particolare, l’impostazione che abbiamo dato a questo lavoro non ha nulla a che vedere con quella con cui professori ed intellettuali appartenenti ai più vari campi dello scibile ricostruiscono per via dogmatica il passato dell’umanità. Quindi fin dall’inizio, oltre a rinunciare ad appoggiarci alle usuali interpretazioni di stile accademico, abbiamo anche rinunciato a spiegare i fenomeni geometrici in cui ci siamo imbattuti ricorrendo per l’ennesima volta al caso, questa strana divinità moderna che a furia di saltar fuori più o meno dappertutto assomiglia sempre di più a un Pulicenella spensierato che offre da bere a tutti spiegando all’oste che paga Pantalone (con questo vogliamo dire che nessuno dei sostenitori di questa strana sorta di fede religiosa al contrario si azzarda a fare un solo passo per definire in che cosa effettivamente consista questo Caso onnipotente, che tutto crea e tutto distrugge, come è che si forma o se si formi un campo di probabilità in cui possa operare, in che modo questo campo di probabilità si possa definire e descrivere, se matematicamente o in altro modo, di quali forze si serva e come, etc.). Dunque, la scelta ermeneutica che ci guiderà lungo tutto il ragionamento che porteremo avanti in questo articolo è quella che ci è apparsa come la più spontanea, la più intuitiva e, soprattutto, come quella matematicamente più sostenibile: e cioè che davvero i costruttori delle Piramidi fossero in possesso dei punti più avanzati attualmente raggiunti dalla scienza empirica occidentale e che un monumento come la Grande Piramide sia stato progettato come proiezione in codice di questo sapere. Certo, ci rendiamo conto che non solo agli storici e agli archeologi accademici, ma anche a molti intellettuali d’altri campi e dunque d’altre accademie l’idea di connettere la più celebre teoria di Einstein all’arte sacra Antico Egizia sembrerà senz’altro un’assurdità, una fantasia più adatta a un film fantascientifico che alla comprensione del significato di monumenti come la Grande Piramide o di rappresentazioni dallo stile “poco realistico” o addirittura “un po’ infantile” come quello che si suppone tipico dell’arte figurativa Antico Egizia. Questo accade perché nell’ambito di tutta la cultura ufficiale dei nostri tempi si crede in modo del tutto acritico e aprioristico che questi capolavori dell’arte e dell’architettura sacra siano stati creati in epoca preistorica o quasi-preistorica da persone che avevano ancora un piede nel Neolitico: cioè, parlando in italiano, da dei quasi-selvaggi. Ma giova ripeterlo: queste idee non sono l’esito di un’approfondita analisi critica e scientifica dei reperti archeologici di cui siamo in possesso. Si tratta invece di un sistema di apriori di stampo ideologico, che nel tempo sono diventati una sorta di idea fissa della cultura accademica occidentale: popoli come gli Antichi Egizi, siccome erano appena usciti dall’Età della Pietra, dovevano essere più vicini allo stato animale e dunque meno intelligenti ed “evoluti” di quanto lo siamo noi. Ne viene di conseguenza che non c’è nessun bisogno di star lì a perder tempo a domandarsi se per caso possano avere un significato scientifico e matematico che finora forse ci è sfuggito.

2) Ma, come abbiamo almeno in parte già visto e dimostrato, questi suggerimenti non ci vengono affatto dalla scienza empirico-matematica, e nemmeno dalla storia e dall’archeologia in senso proprio. Se prescindiamo dai nostri pregiudizi culturali e andiamo a vedere quello che storia, archeologia e, soprattutto, le scienze empirico-matematiche ci dicono riguardo a molte culture dell’Età della Pietra – della cultura Antico Egizia dunque, ma anche dei costruttori di opere come quelle che si possono osservare a Baalbek, Ollantaytambo, Puma Punku, Sacsaywaman, Alatri, Delfi, etc. – è che queste persone avevano a disposizione una tecnica e dunque una scienza da cui derivavano una capacità di lavorazione della pietra che per noi è assolutamente inconcepibile. Costruire centinaia di metri o addirittura chilometri di mura poligonali (ad Alatri i chilometri sono più di quattro) con pietre a dodici, quattordici o più lati, pesanti fino a quattrocento-seicento tonnellate, con incastri che appaiono di tolleranza inferiore al millesimo o addirittura al decimillesimo di millimetro, è un’impresa per noi assolutamente irripetibile: a ben vedere, assistendo a un atterraggio degli alieni dovremmo stupirci molto meno che di fronte ai puzzle di pietra che ci ha lasciato in eredità la preistoria. Diciamo questo perché, date le nostre conoscenze tecniche e scientifiche, viaggi spaziali anche molto impegnativi sono per noi del tutto pensabili e in parte anche realizzabili: se ancora non abbiamo conquistato un pianeta come Marte questo non è accaduto solo a causa delle difficoltà oggettive dell’impresa, ma anche perché buona parte delle motivazioni culturali e ideali che hanno sostenuto lo sforzo immane che ha condotto sulla Luna sono andate perdute. Al contrario, incastri di pietra di un certo tipo sono del tutto al di là – non diciamo delle nostre possibilità pratiche – ma anche solo della nostra capacità di ipotesi tecnico-scientifica. Dunque, a dirci che nell’Età della Pietra l’uomo era ancora vicino allo stadio animale, dotato di un’organizzazione sociale approssimativa, privo di linguaggio scritto, di matematica, di astronomia e financo di strumenti banali come la ruota o la carrucola non ce lo dice l’analisi scientifico-critica dei reperti archeologici, ma una particolare interpretazione della storia che si chiama di solito “evoluzionismo”, che allo stato attuale della conoscenza appare tenersi in piedi su quello stesso genere di fondamenta su cui si regge un castello dipinto. Lungi dall’avere qualcosa a che fare con il metodo scientifico o con un metodo empirico di qualsiasi genere, questa strana sorta di fede al tempo stesso pseudoreligiosa e pseudoscientifica ci spinge a ripetere e a tramandare pedissequamente un sistema di pregiudizi del tutto infondato, e in particolare quello per cui il nostro passato preistorico sarebbe stato un interminabile Evo di animalità e di barbarie: il tutto senza che nessuno o quasi nessuno si preoccupi di controllare se proposizioni di questo genere abbiano effettivamente qualcosa a che vedere – non diciamo con la realtà che in senso ampio possiamo definire percepibile – ma anche solo con quella misurabile e dunque scientificamente controllabile. In effetti, abbiamo visto come certi reperti archeologici, ove vengano presi sul serio, mostrano segni evidenti di una cultura matematica, geometrica e astronomica di livello altissimo (si pensi solo al lavoro di Tom Brophy sul Circolo Megalitico di Nabta Playa), per non parlare poi delle tecniche di lavorazione applicate alla pietra, che, come si è già detto, richiedono degli strumenti che in Occidente dobbiamo ancora reinventare (ammesso che saremo mai capaci di farlo: dai tempi in cui Petrie pronunciò questa frase non è che le cose siano poi molto cambiate). È vero che nella stessa epoca a cui si attribuiscono reperti che testimoniano di culture avanzatissime l’archeologia ne ha scoperti altri che invece ci parlano di culture piuttosto primitive. Ma questo cosa può effettivamente significare quanto allo status di una civiltà come quella di Tihuanaco e Puma Punku, che l’archeoastronomia colloca più o meno nel 15000 a.C.? Lì troviamo dei resti di costruzioni che sembrano davvero opera di divinità invece che di esseri umani: dobbiamo negare quel che vediamo solo perché in quella stessa epoca troviamo un altro genere di resti, che invece siamo inclini ad attribuire a dei popoli tecnologicamente arretrati? Vivendo immersi nelle nostre città, fra automobili e telefonini, è per noi del tutto spontaneo dimenticare che Einstein fu contemporaneo non solo di gente come Bohr, Heisenberg, Wittgenstein, Picasso e simili, ma anche di tutte quelle genti che ancora all’inizio del ‘900 non avevano conosciuto la civiltà. Che diremmo se fra quindici o ventimila anni una civiltà evoluta ma completamente diversa dalla nostra negasse la possibilità che nel 2000 d.C. una civiltà avanzata possa essere esistita perché i suoi resti coesistono con quelli degli aborigeni australiani? È molto facile affermare con tono sprezzante che attribuire una qualsiasi versione della teoria della relatività all’Antico Egitto è una corbelleria degna di un film hollywoodiano: meno facile risulterà spiegare tutte quelle cose che ci apprestiamo a vedere nelle pagine successive, che, per quanto strano possa sembrare, risulteranno ancora più stupefacenti di quelle che abbiamo già visto nelle pagine iniziali.

3) Prima di entrare nei dettagli della nostra indagine, è bene ricordare di nuovo che fino ad oggi la matematica e l’astronomia Antico Egizie erano considerate a livello di bambini delle elementari o poco più. Ciò ha fatto sì che – almeno nell’ambito dell’Egittologia ufficiale – quando si sentiva dire che Newton desiderava conoscere le dimensioni esatte della Grande Piramide per poter calcolare quelle della Terra, la reazione più benevola poteva essere un sorriso di compatimento. La voglia di sorridere tenderà forse a diminuire ove si analizzino con un minimo di serietà immagini come quelle che abbiano mostrato nella prima parte di questo scritto, e magari passerà del tutto quando ci saremo resi conto di come tutte o quasi tutte le costanti delle nostre leggi scientifiche si possano derivare con ottima approssimazione da semplici funzioni π e ɸ, ovvero proprio da quei due numeri che in molti modi caratterizzano i rapporti fra le misure della Grande Piramide. Dunque, la presenza di questi numeri nel monumento può significare qualcosa di enormemente più profondo che la conoscenza di alcune basi della geometria euclidea. È vero che π ha già un ruolo importante nella struttura dei vari tipi di dinamica che sono stati elaborati in Occidente negli ultimi secoli: ma quale potrebbe diventare il suo ruolo teoretico quando si scoprisse che le variabili presenti nelle nostre formule più usate possono essere pensate come funzioni di π e ɸ? Per offrire al lettore un primo e molto breve assaggio di quel che la conoscenza di questi numeri potrebbe significare in relazione alla struttura profonda delle scienze esatte, iniziamo proprio dalla legge di Newton. Se applichiamo la formula (π x ɸ) + π/2 ne risulta un valore di 6,65399, che è molto vicino al valore che attribuiamo alla costante G, che è di 6,67428. Ma – in specie dopo esserci resi conto delle intime connessioni geometriche fra lo spazio sacro Antico Egizio e la teoria gravitazionale einsteiniana – potremmo o forse addirittura dovremmo sostituire in questa formula ai valori di π e ɸ così come risultano dalla dimostrazione geometrica quelli che invece troviamo come valori approssimati nella Grande Piramide (ricordiamo che in questo monumento π risulta dalla metà del perimetro diviso per l’altezza, π/2 dal lato diviso per l’altezza, e ɸ dall’area della base divisa per quella delle quattro facce triangolari). Potremmo dunque sostituire a π e ɸ i rapporti fra i valori delle misure della Grande Piramide, arrivando in questo modo alla formula che servirebbe a calcolare la costante gravitazionale (o magari, in modo più complicato, potremmo partire dalla costante gravitazionale per arrivare alle misure della Grande Piramide). Comunque sia, per amor di brevità e semplicità la scriviamo con i valori a cui si è arrivati per mezzo delle rilevazioni metrologiche. Così facendo arriviamo a un risultato pari a πCheope x ɸCheope + πCheope/2 = (3,142857 x 1,61859) + 1,5714285 = 6,6584. Il valore della costante è G = 6,67428, con una differenza di 6,67428 – 6,6584 = 0,01588. Ricordiamo che il valore della costante oscilla di ± 0,0067. Dunque, la differenza fra il valore minimo che possiamo utilizzare nella formula di Newton e quello che abbiamo ottenuto da πCheope e da ɸCheope è pari a circa 0,00918, cioè a poco più di 9 millesimi. Giova però notare che i circa 15 millesimi di differenza iniziali potrebbero essere praticamente azzerati allungando un po’ la formula e scrivendo πCheope x ɸCheope + πCheope/2 + (1 – 1/ɸCheope)¹⁰ (il cui valore corrisponde in numeri a 0,001326): la differenza si ridurrebbe in questo modo a un paio di decimillesimi.

4) Ma invece di questi valori che derivano dalle misure della Grande Piramide potremmo lasciare ɸ così come risulta dal calcolo geometrico, e, quanto a π, utilizzare un valore di quelli che si possono ricavare da altri manufatti Antico Egizi. Per esempio, potremmo prendere quello che a quanto pare venne usato per costruire il sarcofago di Djedefre, le cui misure, sembrano girare intorno a un numero tanto enigmatico quanto apparentemente del tutto insignificante, il 234. Però se prendiamo in considerazione un ciclo stellare importantissimo per gli Antichi Egizi, quello di Sirio, e andiamo a dividere il suo numero tipico, il 1461 (corrispondente agli anni della sua durata), con questo misterioso 234 e poi dividiamo ancora il prodotto per 2, ci accorgiamo che viene fuori un numero molto vicino a π, vale a dire un 3,1217, che differisce da π di meno di due centesimi. Sembra quindi del tutto evidente che anche in questo caso gli Antichi Egizi abbiano voluto includere nel sarcofago del Faraone un numero che in modo ermetico si connettesse da un lato con Iside – la divinità di cui la stella Sirio era forse il simbolo più importante – dall’altro con la costante geometrica caratteristica del cerchio, e dunque anche dei cicli cosmici, pensati simbolicamente come cerchi. Se per calcolare la costante gravitazionale usiamo questo valore di π, con quest’altra formula (πDjedefre x ɸ) + ɸtroviamo che (3,1217 x ɸ) + ɸ = 6,66905, con una differenza rispetto al nostro valore di G ancora più trascurabile (-0,00523), che per di più rientra anche nel margine di oscillazione della nostra costante. Se poi anche solo per pura e semplice curiosità speculativa andiamo a controllare cosa succede applicando un metodo di questo genere alla costante di Plank, il nostro stupore è destinato a rinnovarsi, dato che in questo caso con formule basate su π e ɸ arriviamo a risultati ancor meglio approssimati. Se prendiamo in considerazione il 6.55 per 10 ⁻²⁷erg al secondo usando la formula (π²/2) + ɸ troviamo un 6,5528, cioè una cifra che risulta vicinissima al valore della costante (+ 0,0028). Un risultato simile, anche se non così ben approssimato, viene fuori in modo ancora più semplice moltiplicando il numero d’oro per quattro, dato che ɸ x 4 = 1,618033 x 4 = 6,472132. Le cose non cambiamo di molto se consideriamo il valore della stessa costante calcolato in joule, che è di 6,62559 x 10⁻³⁴ joule al secondo. Se in questo caso proviamo ad applicare la formula (π x ɸ) + π/2 – [1 – √(√(√(√(√ɸ)] arriviamo a un valore di 6,6234, con una differenza inferiore ai 3 millesimi. La costante di Plank (simbolo “h”) viene però molto spesso sostituita da un’altra costante – messa a punto da Dirac – che si chiama “acca tagliato” (simbolo “ħ”), che ha un valore pari a 1,054571. Possiamo ottenerla con un valore approssimato di circa un millesimo con la formula 1 + (1 – 1/ɸ)³ = 1,055728 o ancor meglio con ⁹√ɸ = 1,054923213178. Oppure, in modo ancor meno usuale, possiamo immaginare di esprimere ħ come tangente dell’angolo di 46°,5214. L’angolo reciproco sul quarto di giro risulta più o meno pari all’inclinazione dell’angolo di base della Piramide Rossa o della parte superiore della Piramide Romboidale, che sono a loro volta reciproci al Circolo di Nabta Playa, il cui angolo potrebbe essere un’espressione ermetica di ħ. A questo punto è forse persino inutile far notare che tutte le costanti scientifiche potrebbero essere viste come tangenti di angoli particolari. Per esempio, la costante di Newton (6,67428) corrisponderebbe alla tangente di un angolo pari a 81°,4788. Quest’angolo ha un coseno pari a 0,14817, un valore molto simile a 1/ɸ⁴ = 0,145898.

5) Ci rendiamo conto che un procedimento di questo genere può parere a prima vista del tutto arbitrario e privo di qualsiasi fondamento empirico. Per altro verso, può anche indicarci che le costanti più importanti della nostra fisica potrebbero avere qualcosa in comune fra di loro o che, comunque sia, a uomini con inclinazione spirituale diversa dalla nostra potrebbero non parere quei numeri casuali e non ulteriormente spiegabili che sembrano invece a noi. Infatti con π e ɸ ci possiamo avvicinare anche alla costante da cui si ricava la velocità della luce che è 2,9979246. Applicando la formula πCheope – (1/ɸ)⁴ arriviamo a un 3,142857 – 0,145898 = 2,996959 che si discosta dal numero corretto di poco meno di un millesimo (per la precisione – 0,000961): aggiungendo a questo numero, per esempio, il valore che viene fuori da (⁵⁰⁰√ɸ – 1 = 0,000962) arriviamo a un 2,997921, che è davvero vicinissimo al valore della nostra costante. Ora, se a tutto questo aggiungiamo che la velocità della luce è stata magistralmente codificata nella base della Grande Piramide domandiamoci: è davvero un azzardo ermeneutico senza fondamento, o addirittura un delirio fantastorico ipotizzare che il diagramma dello spazio tempo fondato su π e ɸ che vi appare parimenti codificato non sia lì per uno scherzo del destino? Pensiamoci bene: dopo aver rilevato nello spazio sacro Antico Egizio in modo non questionabile un insieme di caratteristiche geometriche e metrologiche che, per quel che ne sappiamo noi, possono derivare solo dalla conoscenza della teoria della relatività, non è più razionale e scientifico sostenere che gli Antichi Egizi conoscessero questa teoria (sia pure in una versione diversa dalla nostra) che spiegare tutto con il cosiddetto “caso”, che altro non è che il nome con cui abbiamo battezzato i nostri pregiudizi, la nostra stanchezza, la nostra rinuncia a mettere in dubbio le nostre comode ed aprioristiche certezze in favore di una spiegazione magari intellettualmente molto scomoda ma però credibile ed autentica? In certi momenti la speranza viene meno, ma forse un giorno anche dentro le istituzioni dell’archeologia ufficiale qualcuno si sveglierà e si accorgerà che rendere ragione di qualsiasi tratto di eccezionalità che incontriamo nella tecnica o nel sapere matematico e scientifico dei nostri avi con il caso non è altro che il frutto più velenoso di una pigrizia spirituale che danneggia la nostra intelligenza e il nostro acume, la maschera di una paura travestita da arroganza che costituisce un impoverimento complessivo della nostra identità e del nostro patrimonio tanto storico che scientifico. Shakespeare, forse il più grande poeta dell’Occidente moderno, ha fatto pronunciare al suo eroe più celebre la frase che è diventata il simbolo dell’apertura dello stupore umano all’ignoto che sconvolge il sapere che si credeva assodato e inquestionabile: “Ci sono più cose fra il cielo e la terra Orazio, di quante ne sogni la nostra filosofia”. Questo, come tutti sappiamo, è Amleto che parlando con un ex compagno di università allude al fantasma del padre tornato dal Purgatorio per chiedergli vendetta. Ma potrebbe darsi che questa frase si attagli anche al nostro caso, che quelle immagini che abbiamo visto nella prima parte di questo articolo siano il fantasma di un’epoca dell’umanità che riemerge dal passato per chiedere giustizia alla nostra storiografia evoluzionista, che esclude in modo del tutto infondato che possa essere mai esistita. A ben pensare infatti, che ne sappiamo noi delle forme che può assumere la matematica e la scienza matematizzata in culture diverse dalla nostra per escludere a priori che possa essere stata usata anche come archetipo di figure e monumenti sacri? Noi lo dimentichiamo spesso, ma il più celebre monumento della modernità, la Tour Eiffel, non è altro che l’espressione architettonica di una funzione matematica che tende verso l’infinito, ovvero l’esplicitazione chiara e cosciente di quello che possiamo considerare il senso nascosto delle cattedrali gotiche. E non si è detta la stessa cosa, e con ottime ragioni, anche della musica barocca – una sorta di cattedrale di note che si protende a un infinito simbolizzato dal silenzio – che altro non sarebbe che matematica da ascoltare? Certo, a noi fa specie vedere della gente a cui si attribuisce la teoria della relatività andare in giro con degli strani gonnellini e indossando dei copricapo che oggi come oggi, anche alle sfilate di moda più provocatorie e trasgressive, risulterebbero – come dire – un po’ eccessivi. Un fisico serio, dal nostro punto di vista, deve andare in giro con giacca e cravatta, sennò dimostra in modo inequivocabile di essere un idiota, se non proprio un selvaggio. D’altra parte, Feynman era un noto frequentatore di campi nudisti, e questo non gli ha impedito di raggiungere risultati che la comunità scientifica ha riconosciuto come indubitabilmente interessanti.

6) Ma al di là di qualsiasi apprezzamento di tipo esteriore o estetico, a una mente educata dalla modernità questo modo di calcolare, o, come forse sarebbe meglio dire, di decidere a priori che i valori delle costanti possano o debbano derivare da π e da ɸ (e che dunque le leggi scientifiche stesse risultino in ultima analisi funzioni di questi stessi valori) appare come un sistema di forzature con cui, a prescindere dalla realtà sperimentale, si vogliono a tutti i costi connettere le leggi scientifiche in un sistema unitario, che l’indagine empirica non sembra giustificare. Se un ricercatore moderno volesse derivare i numeri fondamentali delle leggi scientifiche da certi valori tenuti per sacri o addirittura adorati come dèi (perché proprio questo sembra indicare il fatto che π e ɸ fossero codificati sistematicamente nell’arte sacra Antico Egizia: è bene anche ricordare che non si è trovato traccia in quella cultura come del resto in altre culture antiche di un’arte che si possa definire profana) forse la comunità scientifica reagirebbe dicendo che questa persona non ha ancora ben compreso quale sia il modo di procedere di un autentico scienziato, il cui lavoro consiste nel dimenticare apriori ideologici di qualsiasi genere e nel sottomettere il suo lavoro intellettuale e matematico alla realtà empirica operativamente rilevata. Questo modo di pensare è in noi talmente radicato che risulta difficile spiegare a chiunque, a volte persino agli scienziati, che noi possiamo pensare cose di questo genere solo a partire dalla rimozione del processo storico concreto che ha portato alla scoperta delle teorie fisiche attualmente in voga. Solo a partire da questa rimozione possiamo credere tanto fermamente quanto acriticamente che le nostre teorie non siano altro, diciamo così, che una spremuta di fatti, e che dunque siano costantemente in presa diretta con la realtà empirica. Spesso – se non sempre – ci dimentichiamo che all’inizio del secolo la fisica teorica è stata di gran lunga più importante di quella sperimentale e che gli esperimenti reali sono stati quasi sempre progettati e prodotti come proiezione di esperimenti mentali in cui oggetti ideali venivano manipolati per mezzo di segni matematici (questo è accaduto in particolar modo nel caso della meccanica quantistica: si pensi solo agli apparati costruiti appositamente per mettere alla prova la celeberrima “discrepanza di Bell”). Oppure, per fare un esempio ancora più celebre, nel corso degli anni ’20 la meccanica delle matrici messa a punto da Heisenberg venne rapidamente sostituita dalla funzione d’onda di Schrödinger non perché fosse “più esatta”, ma semplicemente perché risultava da un lato enormemente più comoda per il calcolo, e dall’altro perché consentiva di conservare almeno in parte quell’immagine dei fenomeni elettromagnetici che ci si era fatta nella fisica classica a partire dagli esperimenti di Young sull’interferenza delle onde luminose (più tardi Dirac ha scoperto che tanto la meccanica delle matrici che la funzione d’onda si possono derivare da una teoria ancora più astratta). Ma possiamo essere del tutto certi che la meccanica quantistica sarebbe oggi la stessa cosa se la funzione d’onda non fosse mai stata inventata, e i fisici e i matematici avessero lavorato nel secolo successivo a raffinare la fisica delle particelle attraverso l’immagine matematica delle matrici? Con quale espressione, e con quali conseguenze filosofiche, avremmo sostituito la definizione corrente di una particella come “un’onda di probabilità”? Siamo certi che il pensiero umano, ove sia guidato da simboli diversi, non possa arrivare a risultati diversi pur indagando uno stesso campo di fenomeni? In effetti, anche al di fuori del cosiddetto “mondo delle particelle”, ove paiono vigere delle leggi che nulla hanno a che fare con il mondo quotidiano, per comprendere fenomeni percepibili con i sensi, come il moto dei corpi macroscopici, siamo stati abituati a usare immagini matematiche di corpi che si trovano in condizioni ideali: tutti sappiamo che il moto rettilineo uniforme è quello che caratterizza un corpo che si muove senza trovare attrito, cioè un corpo che non esiste. Eppure, è proprio questa immagine di un corpo che non esiste a renderci comprensibili tutte quelle teorie che descrivono quel che accade ai corpi che esistono, quelli che in ogni momento tocchiamo con le mani e vediamo con gli occhi. Che accadrebbe allora se si crescesse un bambino nella convinzione che i corpi hanno la tendenza a stare immobili finché – diciamo così – una divinità non si decida a spostarli? Come reagirebbe all’insegnamento di una fisica che già dal suo nome (“dinamica”) presuppone che la parola “mondo”, la parola “conoscenza” e la parola “movimento” siano in qualche modo dei sinonimi? A ben vedere, comprensioni “neutre” della scienza, indipendenti da immagini che ci diano la possibilità di rappresentarci il significato delle equazioni in modo sintetico, non esistono e forse non sono nemmeno possibili. Chi conosca un po’ più a fondo la scienza moderna e la sua storia è perfettamente cosciente di come per decenni i fisici si siano divisi in modo del tutto simile a come avviene in politica fra “rivoluzionari” e “reazionari”: i primi erano i fautori dell’interpretazione detta “di Copenaghen” della meccanica quantistica, che rinunciava ai principi di identità e di causa in favore di quelli di complementarità e di indeterminazione; i secondi, seguaci di Einstein, erano quelli che pensavano che questa interpretazione delle equazioni fosse da considerarsi incompleta e che sotto il “rivoluzionario” indeterminismo del mondo microscopico si nascondesse il “vecchio” determinismo di quello macroscopico. Ma questo strano tipo di confronto fra conservazione e rivoluzione nell’ambito della fisica matematizzata non ci dimostra in modo indubitabile che si può stare dalla parte di una certa interpretazione dei risultati della scienza seguendo tendenze culturali e psicologiche che hanno ben poco a che vedere con fatti ed esperimenti?

7) In effetti, se noi abbiamo assistito a tutta questa “polemica politica” nell’ambito della fisica microscopica senza perdere fiducia nella sua oggettività e nella sua efficacia, perché non dovrebbe essere esistita una cultura dove – per esempio – le costanti venivano tutte derivate da π e da ɸ, intesi come numeri divini ideali, per poi arrivare a quelli reali per mezzo di procedimenti in qualche modo imparentati con quelli con cui noi arriviamo a calcolare il moto di un corpo reale partendo dall’immagine matematica di un corpo ideale? Nella prima parte di questo articolo abbiamo visto come è che lo spazio-tempo si possa proiettare geometricamente su un diagramma bidimensionale costituito da un sistema di cerchi e di spirali logaritmiche, ovvero, in ultima analisi, di funzioni di π e ɸ. È forse utile rivederlo nell’immagine sottostante così come di fatto appare, senza che le immagini a cui è stato sovrapposto ne disturbino la comprensione.

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« Risposta #29 il: 04 Maggio 2015, 22:08:31 pm »
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Ora, come abbiamo già accennato sopra, se supponiamo che le costanti delle nostre leggi scientifiche si possano (o si debbano: questo non ha molta importanza) tradurre in funzioni di π e ɸ ne viene di conseguenza che anche i valori assunti dalle variabili diventino – sia pure in modo complicato – funzioni di questi due valori fondamentali: quindi non è affatto escluso che dopo aver scoperto che nella Grande Piramide è criptato il diagramma bidimensionale della spazio-tempo, un giorno vi si possa scoprire codificata anche una qualche versione della meccanica quantistica. Anzi, a dire il vero risulterebbe piuttosto strano se le cose non stessero così, perché sembra davvero molto difficile attribuire a una civiltà una versione qualsiasi della meccanica relativistica senza una parallela conoscenza del mondo delle particelle dato che – almeno nell’ambito del nostro mondo storico – questi due campi della fisica sono stati indagati più o meno dalle stesse persone e più o meno nello stesso periodo (anche se le discussioni e le polemiche connesse alla meccanica quantistica sono andate avanti per diversi decenni, mentre la meccanica einsteiniana è stata accettata più rapidamente e con minori conflitti). In effetti, indizi di una presenza di questo genere di teorie li possiamo mostrare già in questo articolo. Se, come nelle immagini sottostanti, proviamo a sovrapporre il profilo della Grande Piramide a quello del modello quantistico dell’atomo di idrogeno elaborato da Bohr sembra che di nuovo si possano ottenere dei sistemi di congruenze che non paiono per niente casuali
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Questi sistemi di congruenze sono già di per sé piuttosto impressionanti: l’inclinazione della Piramide e la disposizione delle sue parti interne sembrano possedere delle caratteristiche tali da poter individuare dei punti caratteristici del diagramma di Bohr e viceversa (e si noti che nell’ultima immagine compare il diagramma dell’atomo di radio). E questo pare già da solo un indizio molto importante del fatto che la meccanica delle particelle sia stata codificata in qualche modo nel monumento assieme allo spazio-tempo relativistico. Ma dopo quanto abbiamo visto fino ad adesso nessuno si stupirà più nel constatare che un tale sistema di sovrapposizioni si ripete – cambiando la scala della proiezione – anche al livello della Camera del Re. Nelle immagini successive possiamo vedere come facendo poggiare segmenti di orbite a segmenti del profilo delle Camere Superiori (che fino ad adesso si credevano lasciate allo stato grezzo) il diagramma dell’atomo nel suo complesso trova di nuovo un sistema di congruenze con tutto il resto della struttura. E questo sembra significare di nuovo che le parti grezze, o che paiono danneggiate (come l’angolo del sarcofago) siano anche quelle una perfetta espressione del codice e dunque di quelle leggi scientifiche di cui il la Grande Piramide diventò l’immagine architettonica.

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8) L’analisi di queste immagini spinge a ipotizzare induttivamente in modo piuttosto serio che la Grande Piramide e i rilievi Antico Egizi siano stati disegnati attraverso un unico codice geometrico compatibile tanto con il diagramma bidimensionale dello spazio-tempo che con il modello quantistico dell’atomo di idrogeno. Da ciò ne viene di conseguenza che
1- il modello quantistico dell’atomo di Bohr deve trovare sistemi di congruenze anche con il disegno delle steli
2- che tanto il diagramma dello spazio-tempo che il modello quantistico dell’atomo di Bohr devono avere dei punti in comune
Ebbene, attraverso le immagini che seguono siamo in grado di dimostrare che entrambe queste induzioni appaiono fondate, dato che il sistema di intersezioni che abbiamo già visto si ricostruisce, oltre che a partire da quello che abbiamo già analizzato, anche da altri due differenti modelli di atomo, che sembrano avere qualche cosa a che vedere sia con la struttura della Grande Piramide nel suo complesso, sia con quella della Camera del Re e con la Camera della Regina
« Ultima modifica: 04 Maggio 2015, 22:11:40 pm da ∞ ℋℴ℘ℰ ∞ »