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Parte 6: Il Codice Snefru - Ipotesi di interpretazione della Stele di Snefru
La struttura archeoastronomica della Cappella dei Leoni e dei Rinoceronti di Chauvet in relazione a quelle del Circolo di Nabta Playa e della Camera della Regina
1. Forse, l’esempio più utile per iniziare la nostra indagine sono delle strutture sacre recenti e ancora relativamente vicine al nostro modo di vedere il mondo, come la volta delle basiliche o dei battisteri bizantini, o quello delle cattedrali del barocco. In questo tipo di strutture oggi si entra attraverso una piccola porta – ricavata da un grande ingresso monumentale che oggi rimane quasi sempre chiuso. Poi, dopo un percorso rettilineo più o meno lungo, si arriva fino a una volta che sovrasta l’altare, in cui viene rappresentato il cielo. Naturalmente, l’immagine del cielo che lì possiamo contemplare non coincide affatto con le rappresentazioni astronomiche moderne, che lo vedono come uno smisurato spazio senza centro, in rapida espansione, in cui il caso ha sparso ammassi di gas che bruciano a temperature altissime, che forse solo per tradizione ancora chiamiamo “stelle”.
Al contrario, al tempo in cui queste volte vennero costruite, lo spazio aveva ancora un centro e una struttura di cieli (o, per meglio dire, di “sfere”) che vi ruotavano attorno. Il cielo più alto, quello per solito rappresentato nelle volte, veniva pensato come una sorta di motore immobile, che faceva ruotare quelli sottostanti. In questo Cielo supremo si pensava abitassero entità divine o divinizzate (le tre Persone della Trinità, gli Evangelisti, Santi, Beati, Angeli ed Arcangeli), che nelle volte barocche e bizantine si offrono alla contemplazione piena di speranza di chi, ancora in vita, tenta di entrare in contatto spirituale con quell’eternità in cui vede la sua futura beatitudine dopo il breve e tormentoso passaggio di questa vita terrena.
In questo genere di strutture sacre, lo splendore del divino e della vita eterna viene molto spesso sottolineato dall’abbondanza di ori e dorature di ogni sorta, al punto che l’oro pare una divina sostanza dalla quale i personaggi emergono come per magia, pur rimanendo di quest’oro profondamente intrisi e quasi in esso confusi (nella statuaria Antico Egizia si nota una simile intenzione estetica, anche se la materia è diversa dall’oro: accade infatti molto spesso che le figure scolpite nella pietra rimangano in parte confuse con essa; il che pare un indizio che quella sostanza divina che nel bizantino e nel barocco è rappresentata dall’oro, nell’architettura e nella scultura sacra Antico Egizia fosse rappresentata dalla pietra).
Nelle basiliche bizantine e nelle cattedrali barocche la dominanza dell’oro era un effetto estetico che veniva rafforzato molto spesso da una vetrata che, lasciando filtrare una luce bianco-giallastra e/o marrone, inclina ancor più l’occhio a – diciamo così – impastare gestalticamente le forme e i colori con gli ori e le dorature. Ancora oggi, ove i luoghi sacri siano conservati in buono stato e l’illuminazione adottata rimanga quella originale, quest’effetto si può ancora contemplare in tutta la sua profondità estetica, religiosa e metafisica.
2. È del tutto ovvio che il cielo rappresentato nelle volte bizantine o barocche, pur non avendo alcuna relazione con il modo “realistico” in cui lo vede qualsiasi occidentale moderno – astronomo o persona di media cultura che sia – non ha però, almeno apparentemente, nemmeno alcuna relazione con il modo con cui veniva visto da culture antiche o antichissime, come gli Antichi Egizi, i Babilonesi, o i Maya. Tutte genti che, proprio come i cristiani del bizantino e del barocco, vedevano nel cielo la sede del divino.
Una prima e del tutto ovvia diversità la possiamo rilevare nel fatto che questi popoli concepivano il mondo divino come composto da una molteplicità di dèi e non da un solo Dio. Ma questa differenza appare davvero trascurabile, in relazione a un’altra che appare ben più radicale e fondamentale. Infatti, queste antiche culture concepivano le entità celesti che si possono osservare nel cielo notturno e diurno – e dunque sole, luna, stelle e pianeti – come divinità in un senso assolutamente letterale e realistico. Tanto per i Maya che per gli Antichi Egizi il Sole, per esempio, non era da concepirsi come un dio in senso lato e metaforico, ma in senso immediato e diretto: vedere il sole era letteralmente vedere la divinità. Lo stesso valeva per qualsiasi altro corpo celeste divinizzato, fosse esso una stella, una costellazione, la luna o un pianeta.
Per fare un altro esempio, che riguarda da vicino l’oggetto di questo scritto, gli Antichi Egizi vedevano la costellazione di Orione letteralmente come Osiride, il dio della morte e resurrezione. A nessun sacerdote-astronomo di quel tempo sarebbe mai venuto in mente quel che oggi pensano tutti gli astronomi e gli uomini di media cultura occidentali, e cioè che questa costellazione, come tutte le altre, non sia nulla di più che un gruppo di stelle più o meno arbitrariamente e convenzionalmente separato dalle altre per dare un ordine qualsiasi al caos del cielo stellato, in cui, a prima vista, risulta del tutto impossibile orientarsi e in cui è molto difficile distinguere un’entità da un’altra.
Questa divinizzazione immediata dei corpi celesti a un cristiano del tempo bizantino sembrava probabilmente una terribile bestemmia (scambiare la creatura col Creatore). Invece, al tempo del barocco, molto prima che come una minaccia alle verità di fede e di ragione, una credenza di questo genere sarebbe stata forse giudicata più che altro come una follia degna di una mente barbara, frutto o di un’irrimediabile arretratezza o di una genuina inferiorità razziale (gli Indios adoratori del sole vennero giudicati privi di anima e ridotti in schiavitù con la stessa naturalezza e buona coscienza con cui lo facevano i Greci Classici con i prigionieri di guerra: con ogni probabilità, le loro credenze religiose, i loro riti e i loro idoli venivano visti come un segno della loro maggior prossimità al mondo animale e demoniaco degli istinti piuttosto che a quello umano).
Oggi come oggi, forse nessuno scienziato si sognerebbe di pensare e men che meno di scrivere che i popoli che chiamiamo “primitivi” siano privi di anima. Ma non vi è dubbio che, messo alle strette, non diciamo ogni scienziato, ma anche solo ogni uomo di media cultura moderno si senta costretto a bollare come una superstizione qualsiasi genere di credenza riguardante stelle e pianeti che li giudichi qualcosa di diverso da un ammasso caotico di sostanze chimiche. Fra gli astronomi vi sono senz’altro dei cristiani ferventi, ma anche loro, quanto alla natura del cielo e dell’universo, hanno radicalmente cambiato opinione rispetto ai loro correligionari di qualche secolo fa.
Infatti, se prendiamo Dante e la Divina Commedia come esempio dell’antica cosmologia cristiana, vediamo che rispetto a quel tempo le cose sono molto cambiate. Oggi come oggi Dio e il mondo divino non vengono collocati dalla teologia in una zona dello spazio oltre le stelle fisse e, in generale, l’al di là viene considerato come un ambito puramente spirituale, totalmente e assolutamente trascendente. Se di uno spazio divino pur si parla, sempre si tratta di uno spazio radicalmente “altro”, per così dire, di uno spazio fuori dallo spazio. Di certo, non si tratta della prosecuzione di quello in cui ci muoviamo tutti i giorni, che è stato radicalmente ed interamente “laicizzato” dalla scienza moderna.
In questo spazio, dove tutto è misurabile e calcolabile, non vi può essere alcun luogo privilegiato ove si possano legittimamente collocare le Tre Persone della Trinità, gli Angeli e gli Arcangeli, i Santi e i Beati. In questo senso, la cosmologia scientifica – oggi pienamente accettata dalla Chiesa Cattolica, che con Giovanni Paolo II giudicò l’idea del Big Bag in linea con il racconto della Genesi – esclude a priori che la Terra o qualsiasi altro luogo nello spazio possano essere considerati il centro dell’universo. Ma, se si esclude il centro, per forza di cose si debbono escludere anche tutte quelle sfere celesti che un tempo si credeva vi ruotassero attorno, compresa quella delle stelle fisse, al di sopra della quale si era soliti collocare Dio e tutte le creature a lui vicine.
3. Volendo adottare una prospettiva evoluzionista, risulta spontaneo attribuire al “selvaggio”, ovvero all’uomo appena uscito dal suo “stato naturale”, la credenza “ingenua” che la Terra sia il centro dell’Universo, e che il cielo sia la sede di divinità, raffigurate come animali o come creature per metà uomini e per metà animali. Queste figure venivano proiettate su sole, luna, pianeti, o forse “ispirate” da gruppi di stelle che suggerivano in modo più o meno diretto le loro forme, reali o fantastiche che fossero.
Ma, pur partendo da una conoscenza del cosmo tanto “primitiva”, lentamente ma inesorabilmente l’uomo “si evolve”. Pur considerando ancora la terra come centro dell’universo, con il paganesimo Greco Classico si cessa quasi del tutto di considerare come divinità le entità che si vedono nel cielo. Così, per esempio, quegli stessi dèi, che un tempo venivano identificati immediatamente con i pianeti, erano diventati al tempo di Aristotele del tutto simili a degli esseri umani, anche se immortali e molto più potenti (a questo proposito Aristotele scrive che “un tempo si credeva che gli dèi fossero pianeti”). La sede dove questi dèi si radunavano era a sua volta vicina e raggiungibile, la cima di un monte sacro, non più il cielo inaccessibile, e invece che con corpi celesti venivano identificati con entità terrestri, naturali o artificiali che fossero (una fonte o un albero erano considerati divinità, ma lo erano anche una porta o il focolare: in pratica, non vi era entità terrestre che non fosse considerata in qualche modo un dio).
Le entità celesti avevano già perso così gran parte di quell’enorme importanza che avevano rivestito nel passato profondo dell’umanità. Anzi, evoluzionisticamente parlando possiamo considerare il paganesimo Greco Classico come il primo passo compiuto dall’umanità verso un radicale abbandono della religione fondata sull’adorazione dei corpi e dei cicli celesti, che nel passato doveva essere assolutamente universale.
Con il cristianesimo però, questa concezione radicalmente “umanistica” e perciò panteistica della divinità introdotta dal paganesimo Greco Classico viene abbandonata, e il cielo torna in questo modo ad essere importante in quanto sede del divino. In effetti, un Paradiso situato oltre il cielo delle stelle fisse rende ancora bene l’idea della trascendenza senza perdere quella concretezza necessaria a un uomo che si suppone ancora non abbastanza “evoluto” per concepire il divino in modo totalmente spiritualizzato.
Ma questo rinnovato interesse del cristianesimo per il cielo non fa sì che il sole, le stelle, la luna ed i pianeti riacquistino alcuna vera importanza teologica. Il Dio uno e trino è un’entità spirituale e trascendente che viene prima del mondo e non nasce insieme ad esso, come accade nelle antiche religioni, che appaiono piuttosto radicalmente panteistiche.
Per esempio, nella visione Antico Egizia prima di Atum – la divinità suprema – vi era il nulla, e il mito non consente di comprendere se Atum sia creato dal Nulla stesso inteso a sua volta come una divinità (come si dice nel Tao, che il Nulla generò l’Essere), o se vi appaia magicamente per autogenerazione. Gli altri dèi dell’enneade vengono invece da Atum, che genera dapprima una coppia di divinità, che ne procreano altre e dalle quali alfine nasce anche l’uomo (che però non ha alcun posto centrale nella creazione, dato che gli Antichi Egizi consideravano che vi fossero animali molto più vicini al divino di qualsiasi essere umano, eccettuato il Faraone: un po’ come accade oggi in India con le vacche, o in altre parti dell’Asia con le scimmie).
Al contrario, il Dio del cristianesimo esiste prima e indipendentemente dal cosmo, e se è vero che ha creato il sole, la luna, le stelle e i pianeti, né lui né alcuno dei suoi angeli si possono identificare con essi, come con nessun’altra creatura immediatamente percepibile con i sensi, eccetto Cristo stesso, la cui permanenza nel mondo in forma umana è stata però di soli 33 anni e, contrariamente a quella di Dioniso, non è destinata a ripetersi. Inoltre, nel cristianesimo l’uomo ha un’importanza assolutamente centrale nella creazione, e i corpi celesti hanno agli occhi di Dio minor importanza dell’uomo. Nel Vangelo infatti, anche il più umile fra gli esseri umani appare creato con un’anima destinata a durare per l’eternità, mentre sole, luna, stelle e pianeti sono destinati a svanire alla fine dei tempi.
Certo, a ben vedere, nelle volte bizantine e barocche ancora restano delle vaghe tracce dell’antica importanza dei corpi celesti e dei calendari connessi. I dodici apostoli ricordano i dodici mesi dell’anno e dunque i dodici segni dello zodiaco, e in molti modi viene fuori il sette, chiara allusione alla settimana lunare (nella Basilica di S. Vitale in Ravenna Cristo viene rappresentato con sette personaggi a destra e sette a sinistra: si tratta probabilmente di un’allusione numerologica al ciclo delle fasi lunari).
Notevole è anche il fatto che nelle rappresentazioni bizantine la Santissima Trinità rimanda in modo quasi automatico alle tre stelle polari. I tre bastoni che le figure nella foto sotto tengono in mano non sembrano altro che gli assi polari corrispondenti a ognuna delle tre stelle che, nel corso dei circa 26000 anni di un ciclo precessionale, si succedono come centro di rotazione del cielo stellato. Allusioni al ciclo precessionale sembrano apparire anche nell’icona rappresentante S. Michele, la cui lancia pare indicare l’inclinazione del polo terrestre rispetto a quello dell’eclittica. Né sembra che possiamo spiegare in altro modo le braccia stese dell’Arcangelo e il semicerchio che le sovrasta, se non come simbolo del cerchio percorso dal polo terrestre attorno all’asse dell’eclittica. In modo simile possiamo spiegare anche il particolare angolo della Croce di S. Andrea
Ma, come abbiamo già visto, con un’ulteriore evoluzione del pensiero scientifico, tutte queste allusioni all’antica astronomia e astrologia svaniscono del tutto, al punto che nel cristianesimo moderno il cielo descritto dalla fisica è destinato a perdere anche il ruolo di sede, diciamo così, geografica del Paradiso. Questo in un certo senso pare ovvio. In un cosmo che ha perduto il centro, dove cartesianamente ogni punto equivale ad ogni altro, nessuno può seriamente teorizzare che un luogo possa essere la sede privilegiata del divino.
In effetti, relativisticamente parlando (ovviamente, qui ci stiamo riferendo alla relatività di Einstein, non al relativismo culturale) ogni punto d’osservazione vale l’altro, e dunque ogni stella o ogni galassia vale l’altra. È chiaro che a questo punto non si può più collocare Dio spazialmente “nell’Alto dei Cieli”, se lo spazio non conosce l’alto né il basso, né qualsiasi punto di orientamento oggettivo. Oggi, con tutto quello che sappiamo di fisica e di astronomia, ci sembra assolutamente incredibile che per un numero imprecisato di millenni gli esseri umani abbiano considerato assolutamente ovvio il fatto che la terra fosse il centro dell’universo, e che il cielo e le entità celesti fossero viste addirittura come delle divinità. La questione che affrontiamo in questo articolo è proprio questa: per quanti millenni è andata avanti questa credenza ovvero: da quanti millenni esiste? Da quanto e per quanto tempo astronomia e teologia sono state delle conoscenze complementari, o quasi dei sinonimi?
4. Come il lettore avrà intuito già dal titolo, la tesi che affermiamo in questo articolo è radicale. Con questo lavoro vogliamo mostrare che l’astronomia matematizzata, concepita come contemplazione del divino, è andata avanti come minimo per diverse decine di migliaia di anni, e che in questo momento non siamo in grado di neppur ipotizzare il punto iniziale di questa tradizione.
Entrando maggiormente nel dettaglio, la nostra tesi è che già al tempo di Chauvet, ovvero attorno al 30-32000 AC, tanto l’orizzonte notturno che quello diurno venivano attentamente scrutati e accuratamente (cioè geometricamente) descritti e che ciò avveniva da molte migliaia di anni. Che dunque già allora ci si era resi perfettamente conto dei mutamenti ciclici del cielo notturno, connessi con la precessione degli equinozi. Ancor più in particolare, lo scopo di questo articolo è di mostrare che quella che viene chiamata “la Cappella dei Leoni e dei Rinoceronti” ha un senso teologico-astronomico – diciamo così – uguale e contrario a quello della Camera della Regina, che si trova all’interno della Grande Piramide di Giza.